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di
FRANCESCO GIAVAZZI
Quando il direttore del
Corriere mi ha chiesto di commentare la lettera di Rita Clementi al
Presidente Napolitano, stavo parlando con un giovane collega che vive da
anni negli Stati Uniti e insegna in una delle migliori università di quel
Paese: cercavo di convincerlo a rientrare, accettando un’offerta della mia
università. Non so se avremo fortuna, ma se rientrasse non sarebbe il primo.
Da un decennio alcune nostre università riescono ad attrarre ricercatori che
si sono affermati all’estero: nel campo dell’economia i casi di maggior
successo sono Salerno e Torino, ma ve ne sono alcuni anche in altre
discipline, soprattutto nelle scienze, come testimonia la lettera del
ricercatore dello Iov di Padova, Vincenzo Bronte, pubblicata ieri dal
Corriere . Purtroppo questa fortuna arride a pochi.
Non so se il ministro Gelmini si rende conto di quanto deve amare il proprio
Paese un ricercatore che decide di lasciare università in cui l’unica
gerarchia è quella determinata dai risultati ottenuti nella ricerca, per
venire in un mondo in cui, come scrive la dott.ssa Clementi, spesso «la
benevolenza dei propri referenti è una variabile indipendente dalla qualità
della ricerca». Non dobbiamo sorprenderci se alcuni coraggiosi, dopo essere
tornati ripartono, anche dall’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, che
aveva suscitato tante speranze.
Che fare per trattenerli o per evitare, caso ancor più triste e amaro, che
intelligenze brillanti dopo 10-20 anni di eccellente ricerca siano costrette
a cambiar lavoro? Mi rivolgo a Lei, Signor Ministro: Lei può fare
moltissimo.
Scrive Rita Clementi: «Un sistema anti-meritocratico danneggia non solo il
singolo ricercatore precario, ma soprattutto le persone che vivono in questa
Nazione. Una "buona ricerca" aiuta a crescere; per questo motivo numerosi
Stati europei ed extraeuropei, pur in periodo di profonda crisi economica,
hanno ritenuto di aumentare i finanziamenti per la ricerca. È sufficiente,
anche in Italia, incrementare gli stanziamenti? Purtroppo no. Se il
malcostume non verrà interrotto, se chi è colpevole non sarà rimosso, se non
si faranno emergere i migliori, gli onesti, dare più soldi avrebbe come
unica conseguenza quella di potenziare le lobby che usano le Università e
gli enti di ricerca come feudo privato e che così facendo distruggono la
ricerca».
Da alcuni mesi il ministro ha nel cassetto un disegno di legge di riforma
dell’università che — almeno nelle versioni più coraggiose circolate sulla
rete — affronta molti dei mali che hanno convinto Rita Clementi a partire.
La governance degli atenei, le modalità di reclutamento dei ricercatori, i
criteri per la ripartizione dei fondi pubblici. Certo, servono anche i
finanziamenti: i tagli previsti dalla Legge finanziaria, se confermati, non
consentono di andare lontano. Ma se non si cambiano le regole, nuove risorse
sarebbero denari gettati al vento. E se le risorse proprio non ci fossero,
perché la crisi ci obbliga a destinare ogni spazio del bilancio pubblico a
chi nei prossimi mesi perderà il lavoro? Allora occorre essere ancor più
coraggiosi, accettando il principio che l’università di fatto gratuita è un
trasferimento dai poveri ai ricchi: quindi alzare significativamente le
rette, accompagnandole ad un sistema di borse di studio che garantisca a
chiunque lo meriti la possibilità di accedere all’università. Questo avrebbe
anche il vantaggio di indurre le famiglie a riflettere con più attenzione
sulla scelta dell’università, e i ragazzi a ribellarsi se un docente arriva
tardi a lezione e trascina stancamente il suo corso non cambiandolo mai, o
se le aule sono sporche e la biblioteca chiude alle 2 del pomeriggio. La
frase «L'università è gratuita, quindi di che cosa vi lamentate!» è uno dei
motivi per cui è tanto difficile migliorare le nostre università. Ma il varo
di quella legge viene rimandato di settimana in settimana, immagino perché
interessi forti vi si oppongono: rettori, vecchi baroni, anche i grand
commis che reggono il suo ministero. Caro Ministro, è venuto di momento di
rompere l’indugio.
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