CISS Torino

Sturzo e l’Economia politica
 

di Giovanni Lepore
 

(Convegno “Sturzo nella cultura politica del ‘900”, Torino, 26 giugno 2009)

 

 

Il mio contributo all’analisi del rapporto richiamato nel titolo (e al rapporto tra Sturzo e la politica economica) verte principalmente sull’esame dei contenuti della piccola dispensa di Note e appunti che il sacerdote vergò in preparazione al ciclo di lezioni di Economia sociale impartito presso il Seminario arcivescovile di Caltagirone nell’anno 1900, sotto forma di commento al volume Principii di economia politica (1889) di padre Matteo Liberatore. Tale volume, nel quale sono raccolti tutti gli articoli della serie Della economia politica apparsi anonimi tra il 1887 e il 1889 su «La Civiltà Cattolica», merita attenzione per molteplici ragioni. “In primo luogo perché essa ci appare come una delle principali, se non la principale fonte della dottrina economica riflessa nella Rerum Novarum; secondariamente, per la sua diffusione come testo nelle scuole ecclesiastiche; infine, per il fatto che il lavoro di padre Liberatore rappresentava, secondo ogni evidenza, il tentativo di offrire un solido e stabile punto di riferimento concettuale al cattolicesimo sociale del suo tempo”[1].

 

 

La dispensa, rimasta inedita sino al 1979, allorché venne inclusa da Luigi De Rosa nella raccolta di scritti sturziani La battaglia meridionalista, si struttura in due parti. Nella prima l’autore affronta il problema della produzione della ricchezza.

In una nota al titolo di questa prima parte – Esplicazione degli agenti naturali della produzione –, Sturzo fa esplicito riferimento a due capitoli del manuale di Liberatore: La produzione e La divisione del lavoro e le macchine. L’affermazione di De Rosa secondo la quale Liberatore “esclude che il capitale possa considerarsi tra i produttori di ricchezza”[2] richiede un breve rilievo. Liberatore non sostiene che il capitale non possa considerarsi tra “i produttori di ricchezza”, ma puntualizza “per esattezza di concetti” che esso non può porsi insieme a “natura” e “lavoro” tra i “fattori primitivi”, tra le “cause primordiali della ricchezza”, perché “non può annoverarsi in senso assoluto tra le cagioni d’una cosa ciò che la suppone, almeno, in parte. Tale appunto è il capitale; il quale dovendo nascere dal risparmio, suppone una ricchezza che soprabbondi al consumo”. Nondimeno, egli reputa il capitale un “mezzo indispensabile all’aumento della ricchezza”. Non è un caso che Liberatore parli in seguito di Tripartizione della ricchezza prodotta tra “il proprietario che fornì gli agenti naturali”, “l’operaio che vi contribuì con la fatica” e “il capitalista che anticipò le spese necessarie”, e non semplicemente di bipartizione della stessa tra i primi due.

Nel pensiero di Liberatore, “due potentissimi aiuti per la produzione della ricchezza” ci vengono somministrati dalla divisione del lavoro e dall’impiego delle macchine. Come ci ha spiegato Adam Smith, autore di Wealth of Nations (1776) e padre dell’Economia politica classica, sono tre i meccanismi mediante i quali la divisione del lavoro accresce la produttività dell’impresa: la maggiore “destrezza” che il lavoratore acquista eseguendo sempre “la medesima operazione”; il “risparmio di tempo” che si ottiene con l’eliminazione dei tempi morti che il “passare da un’opera ad un’altra” necessariamente comporta; la progressiva meccanizzazione della produzione: “l’uso delle macchine riesce più facile e pronto nei lavori spicciolati e costanti”.

D’altra parte, tale fenomeno determina due inconvenienti. Il primo, anch’esso individuato a suo tempo da Smith, è il deterioramento delle facoltà intellettuali del lavoratore, “costretto ad esercitarsi tutta la vita in una sola e medesima operazione puramente meccanica”. Il secondo è l’indebolimento del suo potere contrattuale. Il lavoratore, che non sa più realizzare “alcun prodotto intero, commutabile sul mercato”, è totalmente succube del capitalista che dirige l’impresa nella quale si svolge “la particella di operazione che solamente ha imparato a fare. Se egli non vuol morirsi di fame, deve accettare le misere condizioni che al duro padrone piacerà di dettargli, quanto al salario, alle ore di lavoro, ai giorni e via dicendo”.

Per ovviare almeno in parte a tali inconvenienti, Liberatore suggerisce alcuni rimedi: istruire l’operaio; non mantenerlo “perpetuamente addetto a una sola delle operazioni in cui si sminuzzi il lavoro, relativo a un dato prodotto”, ma “farlo passare gradatamente per tutte o quasi tutte”; ridurre la durata della sua giornata lavorativa.

 Secondo Liberatore, per effetto dell’impiego delle macchine, si ottiene una produzione più “copi[osa]” e “più perfett[a]”, e la si ottiene “più presto” e “con minor spesa”. Ma, a fronte di ciò, la condizione economica generale della classe operaia si inasprisce:

 

Una macchina, governata da due o tre persone, supplisce talvolta il lavoro di cento, dugento, ed anche più operai. L’introduzione di essa gitta bene spesso sul lastrico, ed in preda alla disperazione, una grande moltitudine di persone, per mancanza di pane. Si ha un bel dire che queste possono cangiare occupazione; e che le macchine moltiplicando la produzione ribassano i prezzi delle merci, e quindi riescono utili agli stessi operai. Il procurarsi nuova occupazione per alcuni riesce impossibile, per altri richiede tempo; e all’operaio, che vive del giornaliero salario, importa poco che il prezzo delle merci ribassi, quando gli mancano del tutto i mezzi per comprarle. Per lui è lo stesso che se si vendessero ad altissimo prezzo.   

 

In materia di divisione del lavoro e di macchine, l’analisi di Sturzo ricalca quella di Liberatore, fuorché per un aspetto. Come ha posto in evidenza De Rosa, esiste infatti un netto salto tra i due modi di valutare gli effetti della meccanizzazione della produzione sui livelli occupazionali[3]. Per Liberatore nella maggior parte dei casi quando in un’industria viene introdotto un nuovo macchinario, “stabilmente è tolta l’occupazione a più di centinaia di braccia”. Per Sturzo viceversa la “diminuzione della mano d’opera” è temporanea, perché non riguarda che un “primo stadio” temporale; nel “secondo stadio”, per effetto di quella “legge di compensazione” insita nei meccanismi del mercato, “tutto ritorna allo stesso livello” di prima, nel senso che i lavoratori rimasti disoccupati trovano lavoro in un’altra impresa, sorta sulla base dei capitali “derivanti dal maggior prodotto” che si è ottenuto nell’impresa originaria grazie all’apporto del macchinario.

 

 

Nella seconda parte della dispensa Sturzo affronta invece il problema della distribuzione della ricchezza. In questa seconda parte, il sacerdote calatino non si propone di elaborare una teoria della distribuzione, una teoria cioè capace di spiegare come si determinino i prezzi dei fattori di produzione (terra, lavoro, capitale) e perciò i redditi (rendita, salario, profitto) che proprietari terrieri, lavoratori e capitalisti ricevono come compenso per il proprio contributo alla produzione, ma di individuare alcuni criteri fondamentali tali da permettere, nell’ambito delle istituzioni proprie del capitalismo, una più equa ripartizione della ricchezza prodotta.

Affermando che quest’ultima proviene “dalla terra”, Sturzo non vuole in alcun modo esprimere “una visione fisiocratica” del sistema economico[4], ma il semplice fatto che è l’agricoltura che “dà la materia alle industrie e ai commerci”: se una parte del “frutto ricavato” dal suolo viene finalizzata “al consumo immediato e diretto”, un’altra viene finalizzata “alla riproduzione e specificazione in altre industrie”, per poi a sua volta essere finalizzata “al consumo o a una nuova riproduzione o specificazione, sia industriale che commerciale”. Senza l’agricoltura, l’industria e il commercio perciò non potrebbero sussistere e produrre profitti.

Una volta che si è stabilito che la proprietà rurale è “il fondamento della ricchezza sociale”, è necessario soffermarsi su “una questione pregiudiziale”; cioè se tale proprietà abbia o meno in sé “la sufficienza di bastare agli uomini moltiplicantisi in indefinito”. A tal proposito, Sturzo invita i propri studenti alla lettura del capitolo dei Principii di Liberatore inerente a La popolazione, nel quale “vengono respinte le teorie malthusiane, in considerazione della vastità delle risorse naturali e delle possibilità (tecnologiche) crescenti offerte al loro sfruttamento”[5].

Ai frutti della proprietà rurale partecipano in maniera “diretta e immediata” il proprietario della terra e il lavoratore, “sotto forma o di compartecipe (mezzadro, enfiteuta) o di gabellotto (fittavolo) o di semplice salariato (operaio giornaliero)”. E in “modo indiretto”:

1.  coloro che prestano i propri capitali e/o il proprio lavoro nella manifattura e nel commercio.

2.  coloro che non producono né spostano beni materiali. Costoro sono “indirettamente” produttivi, perché soltanto “indirettamente” concorrono alla formazione della ricchezza, spendendo “retribuzioni-stipendi sia sociali dello Stato, sia dei privati”. L’allargamento indiscriminato della quota dei lavoratori “indirettamente” produttivi sul totale della forza-lavoro spinge perciò la società in direzione della “rovina”. Compito del legislatore, ogniqualvolta tale quota superi i “bisogni veri e reali della società”, è di far defluire risorse da essa e di farle affluire verso l’agricoltura, l’industria e il commercio;    

3.  coloro che non sono autosufficienti;

4.  gli enti collettivi (comune, provincia e Stato), che adempiono alle proprie funzioni per mezzo delle imposte. In materia di imposizione fiscale, è fondamentale che il legislatore osservi le quattro regole dettate da Sismondi nei Nouveaux principes d’économie politique (1819) e riportate da Liberatore nei Principii. La prima è che l’imposta deve gravare sul reddito e non sul capitale, perché in caso contrario distruggerebbe ciò che “fa vivere i privati e lo Stato”. La seconda che l’imposta deve gravare sul reddito propriamente detto e non sul prodotto lordo annuale, perché quest’ultimo comprende, oltre al reddito, tutto il capitale circolante e quella parte di capitale che viene impiegata per “mantenere o rinnovare tutti i capitali fissi, tutti i lavori accumulati, e la vita di tutti gli operai produttivi”. La terza che l’imposta non deve colpire quella parte di reddito che è “necessaria alla vita del contribuente”. La quarta che non deve colpire quella parte di reddito che è “necessaria perché questo reddito si conservi”.      

 

 

Sturzo salì in cattedra con il palese intento di esporre ai propri allievi un piano di riforme che doveva contribuire a improntare al principio della “giustizia sociale” il capitalismo ottocentesco, che secondo lui non si poteva annientare senza arrestare “lo stato pregrediente della società”, ma nemmeno difendere “tal qual è[ra]”. Tale piano prevedeva: 1) un riassetto della proprietà fondiaria, che favorisse la piccola e media proprietà a discapito della grande; 2) la fissazione di alcune norme che impedissero ai contratti agrari di rivelarsi troppo svantaggiosi per i contadini; 3) l’attuazione di una giusta legislazione operaia.

Sturzo non è tra coloro che misconoscono “gli uffici sociali ed economici” della grande proprietà. Il grande proprietario è importante dal lato economico, perché è l’unico attore del mondo rurale che, per via dell’istruzione ricevuta e della ricchezza di cui dispone, sia in grado di allestire dei “campi sperimentali” e predisporre degli “uffici centrali” in cui elaborare innovazioni agronomiche, e dal lato sociale, per la funzione “di patronato e di protezione” che può esercitare sui contadini.

Il problema è che in Sicilia, come nel resto del Mezzogiorno, a partire dal XVII secolo, i grandi proprietari avevano abbandonato le campagne e si erano riversati in città, con il risultato che si era distolto un enorme stock di capitali dalla produzione agricola, per sperperarlo nei consumi di lusso urbani, e che si era lasciato il latifondo in mano ai gabellotti (dal contratto di affitto chiamato gabella), che lo avevano lottizzato e avevano subaffittato i singoli lotti ai contadini a condizioni particolarmente onerose. In tal modo, essi erano venuti meno a questa “doppia funzione economica e sociale”.

Oltre a non dover essere assenteista, la grande proprietà non deve escludere, ma anzi essere “proporzionata” alla piccola e alla media, affinché “non sopraffaccia i mercati e non monopolizzi la produzione”.

Nel pensiero sturziano, la diffusione della piccola proprietà rurale è di “grande utilità” sia sotto il profilo economico, perché il possesso esclusivo della terra determina nel lavoratore una “maggiore spinta al lavoro”, sia sotto il profilo sociale, in quanto essa “dà meno spostati e meno anarchici alla società”. Un grande numero di contadini-proprietari rappresenta “un elemento di ordine”, di “tradizione”, e di corretto “svolgimento della vita domestica”. Per “difendere” e/o “ricostituire la piccola proprietà che va scomparendo” è necessario stabilire “alcune leggi fondamentali, spesso trascurate” senza le quali “non si ottiene l’effetto” desiderato, ma quello “contrario”. È necessario cioè esaminare con attenzione le ragioni della sua quasi totale dissoluzione, tra le quali Sturzo individua “la mancanza di capitali”, “i gravami del fisco”, “la trasmissione successoria per divisione”. Affinché la piccola proprietà si mantenga, occorre: istituire casse rurali volte a prestare denaro a condizioni agevolate ai piccoli possidenti. Se non è “provvista di sufficiente capitale”, la piccola proprietà diviene “un onere e non un utile”; renderla per legge “insequestrabile per debiti” ed “esente da imposta”; assoggettarla al regime di trasmissione integrale dei beni, per impedire che “venga frazionata” sino al punto di “perdere la utilità”.

Sturzo è convinto che, statistiche alla mano, si possa dimostrare che generalmente la coltivazione condotta nella media proprietà è “assai” più produttiva di quella condotta nella grande proprietà. Ciò dipende dal fatto che il medio possidente, a differenza del grande, “sente il bisogno di avvantaggiarsi nella sua posizione economica”, e di conseguenza è maggiormente stimolato al lavoro. La media proprietà è preferibile alla grande non soltanto dal punto di vista economico, ma anche da quello sociale: in primo luogo, perché richiede “un lavoro maggiore” e perciò il bracciante “trova da poter vivere” più facilmente; in secondo luogo, il medio possidente, essendo in contatto diretto con i braccianti, “ne ha maggior cura, spesso anche affetto”, e quindi adempie “meglio” al proprio ruolo di “padrone”. I problemi che affliggono la media proprietà sono i medesimi che affliggono la piccola e cioè “le tasse enormi”, “la mancanza di capitale produttivo”, “il frazionamento spesso inconsulto causato dalle successioni”.

A causa dei “passaggi usurai e straordinari di proprietà” e dello “sviluppo delle attività umane in altri lavori e mestieri (industrie – commerci – arti liberali ecc.)”, la proprietà rurale non può essere mai ripartita in modo da avere tanti proprietari quanti individui. Ma se si ammettono “le disuguaglianze fra gli uomini”, non si possono ammettere “le manomissioni ai diritti inviolabili e naturali”. Si pone in particolare il problema di rendere meno acute le disparità esistenti nei contratti agrari tra i poteri contrattuali di terra e capitale agrario, che è lavoro “col capitale combinato”, e nella moderna azienda capitalistica (agricola e industriale) tra i poteri contrattuali di capitale e lavoro salariato, che è lavoro “distinto dal capitale e non combinato con esso”.

L’affitto è “secondo giustizia” quando il canone che l’agricoltore paga al proprietario è moderato; il contratto ha una durata almeno sufficiente da permettere all’agricoltore di “ripigliare il capitale affidato alla terra”; alla scadenza del contratto, l’agricoltore viene indennizzato dei miglioramenti effettuati; eventuali perdite dovute a calamità naturali gravano in parti uguali su agricoltore e proprietario. La mezzadria lo è quando prevede l’obbligo per il proprietario alla direzione, alla sorveglianza e all’erogazione dei suoi capitali per la trasformazione del suolo.

Nel sistema capitalistico, il prezzo del «lavoro-merce» (salario), come quello di qualsiasi altra merce, è determinato dall’interazione tra domanda e offerta. Il problema è che la “concorrenza” che i lavoratori si fanno l’uno con l’altro è talmente “spietata” da costringere il singolo lavoratore ad accettare nella maggior parte dei casi un salario da fame. La concorrenza, per potersi dire “giusta”, deve avere “i suoi limiti”. L’esclusione della donna dalle officine e dalle fabbriche, che “la debolezza della complessione” e “i doveri di madre e la educazione dei figli e il benessere della famiglia” renderebbero opportuna, farebbe d’altra parte diminuire l’offerta di lavoro e aumentare i salari.

Ancora meglio sarebbe sottrarre almeno in parte il salario alla libera contrattazione tra le parti. Don Sturzo riprende da San Tommaso la definizione di salario come di justum pretium. Nel suo pensiero, il “giusto” salario: non deve mai scendere al di sotto di un certo minimum. Poiché l’operaio, come qualsiasi altro individuo, ha diritto di vivere e di formarsi una famiglia, il salario minimo deve consentirgli di mantenere sé, la moglie e i figli; deve essere proporzionale allo sforzo fisico attuato dall’operaio nello svolgimento della propria mansione e/o allo sforzo intellettuale speso in “uno studio ed esercizio precedente”; deve essere proporzionale alla produttività dell’operaio: se egli con il proprio lavoro determina una “produzione maggiore” e degli “utili maggiori” per l’impresa, il suo salario “deve salire”.

Sturzo chiarisce che i suoi sono soltanto imperativi morali: se in seguito ad una crisi economica gli utili dell’impresa diminuissero fino al punto da non permettere al capitalista nemmeno di pagare il salario minimo, ai lavoratori non rimarrebbe che aspettare tempi migliori, perché “non può la giustizia obbligare il padrone a dare all’operaio una mercede che superi i guadagni dell’impresa e che riduca la produzione ad una passività”. E non ignora nemmeno le difficoltà connesse alla fissazione del medesimo, “stante le diverse esigenze, condizioni, necessità di luoghi tempi e persone”.

Una possibile soluzione al problema di elevare la condizione della classe operaia senza intaccare i processi formativi del capitale può essere offerta dal sistema cooperativo. Istintivamente, Sturzo è portato a giudicare con favore la compartecipazione dell’operaio agli utili, ai rischi e al controllo amministrativo delle imprese, perché “a poco a poco” egli “diverrebbe operaio-proprietario e si fisserebbe la sua posizione e quindi sarebbe evitata l’emigrazione temporanea, la concorrenza diverrebbe difficile, e la rimunerazione del lavoro sarebbe maggiore”. Ma ammette di non avere “dati sicuri” per perorare la cosa alla stregua di una panacea: laddove a tale sistema era stata data effettiva attuazione, l’esperimento era stato ristretto soltanto a “un nucleo di operai”, e gli utili si erano rivelati “esili e derisori”.       

Se da un lato, nel sistema capitalistico, che è stato strutturato secondo i princìpi della teoria economica liberale, si è separato il lavoro dal proprio “agente”, cioè l’operaio, in modo che si è fatto del lavoro una “merce” (teoria pratica moderna del lavoro-merce), dall’altro, si è separato l’operaio dalla “sua vita domestica, civile e religiosa”, in modo che si è fatto dell’operaio un “uomo macchina” e della produzione “il fine principale o solo dell’uomo e della società”.        

Poiché “gli uomini non sono nati per l’industria, ma l’industria per l’uomo”, una giusta legislazione operaia deve saper coniugare le esigenze inerenti al ruolo produttivo dell’operaio con quelle derivanti dal suo essere innanzitutto “uomo” e “cristiano”. È in tale ottica che vanno intese le proposte sturziane di ridurre la durata massima della giornata lavorativa da 12÷16 a 10÷11 ore e, dove ancora non è stato fatto, di rendere obbligatorio il riposo festivo (nelle attività in cui non è possibile sospendere la produzione – officine metallurgiche, vetrerie ecc. – è “socialmente doveroso” alternare i lavoratori).

Coloro che avversano tali proposte adducendo il pretesto di una “perdita nella produzione”, non calcolano “quanto si perderebbe sfruttando l’operaio di continuo”: un eccessivo sfruttamento dell’operaio andrebbe indirettamente a discapito dello stesso capitalista, perché determinerebbe il suo logoramento fisico, intellettuale e morale e perciò la diminuzione della produzione “mediata” e futura.

Ma anche ammettendo che la produzione diminuisca c’è da tener conto del fatto che non è soltanto essa che “determina il valore di scambio dei beni prodotti”. Può darsi che “aumentata la produzione, ne diminuisca relativamente la richiesta” (nella dispensa, Sturzo rigetta la “legge delle proporzioni” di Say, secondo la quale “il capitale stabilisce la produzione, e questa il consumo”).

 

 

Delle battaglie condotte da Don Sturzo in campo economico nel periodo di tempo che intercorre tra il 1946, l’anno del suo rientro in Italia dal ventennale esilio, e il 1959, l’anno della morte, quella contro lo «statalismo» fu “forse la più aspra, la più tenace”[6].

Dello statalismo, il Nostro diede, tra le altre, queste tre definizioni: “l’eccesso e la degenerazione dell’attività statale”; “degenerazione sistematica dell’intervento statale in campi non propri”; “intervento abusivo e sistematico dello Stato nell’attività privata di qualsiasi specie”.

In particolare, per Sturzo, lo Stato si manifesta «statalista» “quando si mette a fare l’imprenditore”[7]. Il problema principale delle “gestioni statali o parastatali” delle attività produttive è che esse sono:

 

quasi tutte passive e nella migliore delle ipotesi, anche se attive, costano più delle gestioni private. Due le cause: mancanza di rischio economico che attenua il senso di responsabilità; interferenza politica che attenua o annulla, secondo i casi, la caratteristica dell’impresa […]. Gli effetti negativi della statizzazione sul piano sociale sono evidenti; se le gestioni statali costano di più e vanno in perdita, i maggiori costi e le continue perdite sottraggono allo Stato e alla generalità una non indifferente somma di risparmio trasferito allo Stato che, impiegata utilmente, avrebbe dato lavoro agli operai e massa di beni prodotti al mercato interno o internazionale.     

       

L’avversione manifestata dall’ultimo Sturzo verso ogni forma di statalismo ha indotto alcuni a pensare che egli sia stato “un liberista”. Pensiamo, tra gli altri, a Salvatorelli, che scrisse, con riferimento allo Sturzo maturo, di “liberismo antisociale”, e a La Pira, che confidò in segreto a De Rosa di reputarlo un “liberale niente affatto cristiano”.

In realtà, la dottrina sturziana dell’intervento statale nell’economia non coincide perfettamente con quella liberista dello «Stato minimo». Nel pensiero di Sturzo, esiste una distinzione tra statalismo e intervento statale. Sturzo è contrario al primo, da lui inteso come un qualcosa che eccede il mero intervento statale, non a quest’ultimo. Scrive il Nostro sulle colonne de La via nell’ottobre del ‘51:

 

Secondo il prof. Ernesto Rossi io sarei un liberista manchesteriano di cento anni fa. Non c’è dubbio che io sia stato sempre coerente ad un ideale temperatamente «liberista» […]. Però, e prima e dopo il fascismo, in Italia e all’estero, ho sempre ammesso e, occorrendo, sostenuto apertamente, un equilibrato intervento statale a fini politici e sociali ben chiari e determinati […]. Quando lo Stato liberale era timido ad adottare leggi sociali, non solo noi democratici cristiani della fine Ottocento, ma anche molti altri di vario settore, a parte i socialisti, sostenevamo il diritto dello Stato a intervenire, per proteggere il lavoro contro lo sfruttamento.

  

Dell’Economia politica liberale Sturzo rifiuta senza mezzi termini i due principali presupposti epistemologici. Il primo presupposto è che il fine dell’atto economico è l’utilità. Per Sturzo, quest’utilità, a differenza di ciò che pensano gli economisti ortodossi, non ha natura individualistica, perché l’essere umano “preso da solo, vivente da solo, operante da solo non esiste né può esistere”. Esiste semmai l’essere umano che vive ed opera “nella società”. Alla base del pensiero economico sturziano, c’è una peculiare concezione dell’individuo e della società: “la società non è un’entità o un organismo fuori e sopra l’individuo, né l’individuo è una realtà fuori e sopra la società.  L’individualità, presa in sé come distinta e opposta alla società, è un astrazione logica”, come lo è “la società presa in sé come distinta e opposta all’individualità”, perché nella realtà, “non si danno né individui fuori della società, né società senza individui”, ma “individui in società”. La società deve essere perciò concepita organicamente, ossia non individualmente né collettivisticamente, perché deriva dalla persona, che è “insieme individuale e sociale”. Essa è “talmente individuale da non partecipare a nessun’altra vita che la sua, sì da essere personalità incomunicabile; ed è talmente sociale che non potrebbe svolgere qualsiasi facoltà né la sua stessa vita al di fuori delle forme associative”. Da ciò discende che “necessariamente” anche l’economia deve essere “organica, vale a dire libera e coordinata allo stesso tempo”.

Il secondo presupposto è che “le leggi economiche non hanno carattere etico, non dipendono dalla morale, né da questa sono corrette o limitate; si crede che il campo dell’utile sia autonomo”. Al contrario, la “tesi” di Sturzo è che “tutta l’attività umana”, compresa quella economica, in quanto “razionale” sia “pervasa da eticità; è in sé e per sé morale perché la moralità non è altro che la razionalità dell’azione”. La riprova della natura etica delle leggi economiche è che chiunque le violi nella loro “portata etica generale” subisce un “danno proprio”:

 

L’osservanza dei patti è legge morale, ma chi può negare che sia anche una legge economica? È vero, si stipulano patti non equi e quindi immorali: ma chi non sa che la mancanza di equità è contraria all’interesse della parte che crede di averne profitto? Se è il proprietario che se ne avvantaggia, il lavoratore è indotto a fare il suo mestiere di malavoglia maledicendo il conduttore; il quale spesso non si rende conto che se il rendimento di tale operaio è inferiore a quello che egli pretende, ciò può dipendere dallo stato psico-fisico dell’operaio. Questi, pur cercando di fare il suo dovere, manca di sufficiente nutrimento, ovvero non può curare le malattie di famiglia ovvero è preoccupato per i debiti; non è certo nelle migliori condizioni per lavori diuturni e gravosi.

 

 È proprio nel quadro generale di tale concezione etico-organica dell’economia politica, di matrice toniolana, che Sturzo avrebbe espresso compiutamente soltanto in alcune opere della maturità – La società, sua natura e leggi (1935), Economia e morale (1947), Eticità delle leggi economiche (1958) –, ma alla quale egli faceva riferimento sin dai tempi delle lezioni[8], che va inteso il piano di riforme che emerge nella dispensa di Note e appunti di economia sociale: diffusione della piccola proprietà fondiaria, del piccolo affitto a lungo termine, con canone moderato e indennizzo per i miglioramenti effettuati dall’agricoltore, e della mezzadria, con l’obbligo per il proprietario alla direzione, alla sorveglianza e all’erogazione dei propri capitali per la trasformazione del suolo; riduzione della durata della giornata lavorativa, difesa del riposo festivo, esclusione delle donne dalle fabbriche, fissazione di un salario minimo per gli operai o, in alternativa, partecipazione dei medesimi agli utili, ai rischi e al controllo amministrativo dell’impresa capitalistica. 


[1] F. Traniello, Aspetti della cultura sociale cattolica prima della Rerum Novarum, in I tempi della Rerum Novarum, a cura di G. De Rosa, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2003, p. 56. 

[2] G. De Rosa, Introduzione a L. Sturzo, La battaglia meridionalista, op. cit., p. xiii. 

[3] G. De Rosa, Nota critica a L. Sturzo, La battaglia meridionalista, op. cit., p. 206. 

[4] F. Malgeri – F. Piva, Vita di Luigi Sturzo, Roma, Cinque Lune, 1972, p. 119.

[5] G. Turco, “Vita sociale e ordine politico nel pensiero di Matteo Liberatore”, Sapienza, lvii, 4, 2004, p. 420.

[6] F. Malgeri – F. Piva, Vita di Luigi Sturzo, cit., p. 423.

[7] E. Maccioni, “Il settore pubblico dell’economia nel pensiero di Luigi Sturzo”, Sociologia, x, 2, maggio-agosto 1976, pp. 22.

[8] Cfr. L. Sturzo, Conservatori cattolici e democratici cristiani (ed. orig. 1900), in Id., Opera omnia, serie II, vol. I, Bologna, Zanichelli, 1961, p. 202. Proprio con Toniolo, Sturzo, “quale insegnante di economia e sociologia nel gran seminario di Caltagirone”, si era “mantenuto in corrispondenza e in contatto”. Si veda: L. Sturzo, Giuseppe Toniolo (ed. orig. 1936), in Id., Opera omnia, serie III, vol. V, Roma, Cinque Lune, vol. v. Scritti storico-politici, 1984, p. 252.   

 

 

Giovanni Lepore: «Sturzo e l’Economia politica. Convegno “Sturzo nella cultura politica del ‘900”» , Torino, 26 giugno 2009)

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