CISS Torino

Lo Stato diffidente e il cittadino sottomesso

 

 

di Pietro Di Muccio De Quattro

 

Tanto manca il rispetto quanto abbonda la diffidenza, in Italia. La burocrazia è fondata sulla diffidenza. Il fisco, idem. Stato e cittadini diffidano l’uno degli altri. Viviamo in una repubblica di certificazioni. La carta tiene le veci della lealtà e della fiducia. Sono decenni che ogni nuovo governo istituisce, sebbene con nomi variati, un ministero per riformare i ministeri, tagliare le scartoffie, semplificare le funzioni amministrative. Immancabilmente, nonostante la bravura e la volontà del ministro, quando pure esistano, il risultato è opposto alle intenzioni: più complicazioni, più inefficienza, più personale, più procedure. L’amministrazione pubblica assomiglia ad un’imponente industria per la produzione di carta a mezzo di carta, però da non confondere con il virtuoso riciclaggio della cellulosa. Parliamo di sprechi, colossali, di tempo, denaro, energia. Succede che allo sportello dell’anagrafe comunale vi chiedano la carta d’identità per rilasciarvi un certificato. Oppure che il fisco, ogni anno che Dio manda, vi obblighi, sì vi costringa, sotto pena di commettere evasione, a redigere la lista dei redditi degli immobili posseduti, redditi e immobili che il fisco stesso conosce perché li cataloga per legge in un suo apposito registro pubblico chiamato catasto. Ovvero, ancora, v’imponga di dichiarare le retribuzioni corrispostevi da un datore di lavoro che mese per mese le ha già tosate dell’imposta versandola all’erario. Il fisco non solo preleva e incamera il denaro dei contribuenti, ma gode nell’infliggere loro il tormento della denuncia e il terrore degli errori. La denuncia dei redditi non è, come dovrebbe, l’atto con cui il cittadino legittima lo Stato, ma una corvée feudale, non solo nel senso che il contribuente lavora quasi mezz’anno per mantenere apparati pubblici dai quali ricava più svantaggi e fastidi che benefici e agevolazioni, ma anche nel senso che deve impiegare giornate di lavoro, triboli, parcelle per eseguire la prestazione dovuta. Per quale motivo lo Stato e le leggi sono intrisi di sospetto verso i cittadini? Non è forse paradossale, oltre che ingiustificabile e controproducente, dubitare in fondo di se stessi? Potrebbero andare diversamente le cose? Sì e no. Chi legifera ed organizza gli apparati pubblici ha in mente le sue regole di condotta, riflette una realtà di cui è parte e della quale non si fida, come gli altri diffidano di lui. Una cautelosa malignità, non l’onesta affidabilità, è la sua stella polare. La sua natura sociale è stata forgiata da un contesto di relazioni e consuetudini che portano ad una conclusione univoca. Sa che la giustizia non premia chi fa affidamento sulle leggi e sugli uffici.

 

La giustizia regge una bilancia sbilenca e una spada smussata. E’ pigra, svogliata, inefficace, salvo per i grandi crimini o da prima pagina. Ed esiste pure un’altra ragione, forse meno profonda, tuttavia del pari stringente. Chi esercita un potere, tende inevitabilmente a scaricare sul prossimo gli oneri che vi sono per necessità connessi. In altre parole, cerca di schivare le responsabilità e caricarle sulle spalle del cittadino che non può scrollarsele di dosso perché giace in una posizione di oggettiva ricattabilità. E’ sempre ripugnante lo Stato e i suoi agenti che profittano della debolezza delle persone che al contrario dovrebbero sovvenire. Nell’azione di regolamento dei confini tra doveri pubblici e diritti privati, i politici e i funzionari sono tenuti ad autolimitarsi. Invece, scaricano sui postulanti tutto il possibile. In luogo di agevolare e cooperare, ingaggiano una lotta e trattano i malcapitati alla stregua di truffaldini sfruttatori. Retaggio di un’atavica sudditanza verso l’autorità, questo impari rapporto tra cittadini e potere è difficile da riequilibrare secondo il corretto canone liberale. Qualcosa, purtuttavia, si muove. Esistono eccezioni lodevoli, che devono essere sottolineate non solo in quanto tali, ma per il loro valore esemplare, che dimostra la possibilità e la semplicità di stabilire relazioni affabili e collaborative tra funzionari e cittadini, e che dimostra inoltre l’inescusabilità di ogni assetto istituzionale basato sui sospetti, la sfiducia, la sottomissione: in buona sostanza, su una condizione legale o fattuale per cui il cittadino non è il fine, ma uno strumento, dell’azione pubblica. Se cambio residenza, sono tenuto a modificare una serie di documenti, dalla carta d’identità alla bolletta della nettezza urbana, dalla patente di guida al libretto di circolazione. Ebbene, in tal caso, il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, da elogiare incondizionatamente, ti scrive a casa una cortese lettera in cui, premesso che “non devi presentarti né fare domanda presso nessuno sportello della Pubblica Amministrazione”, ti allega due comodissimi tagliandi autoadesivi da incollare sulla patente e sul libretto, aggiungendo indirizzi postali ed elettronici, telefono verde e sito internet “per risolvere ogni problema senza muoversi da casa e senza spese a carico”. Semplice, rispettoso, efficace. Questo è lo Stato amico che ti tratta da cliente anziché utente. Purtroppo è una rarità.

 

 

Pietro Di Muccio De Quattro: «Lo Stato diffidente e il cittadino sottomesso». L'Opinione di Roma, 4.06.2009

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