Società

L'immagine di Pinocchio come autenticità dei prodotti italiani all'estero

«Pinocchio e l'Italia che non c'è più»
 

di Mina


L'italianità non esiste. Forse assume una pallida realtà solo nella mente di coloro che amano le categorizzazioni semplicistiche. La prova? Cercate di dettagliare, al di là dello schermo delle parole vuote, i caratteri dell'italianità media. E vi ritroverete a snocciolare, in una valanga di luoghi comuni, tutto e il contrario di tutto. Eppure c'è chi sente il bisogno di un simbolo, di un marchio che ci rappresenti e che accontenti la nostra smania di etichette.

Se ne è fatto portavoce l'onorevole Riccardo Migliori, che ha presentato una proposta di legge che prevede l'impegno culturale e finanziario dello Stato per garantire, con l'immagine di Pinocchio, l'immagine e l'autenticità dei prodotti italiani all'estero. Il tutto alla modica cifra di una cinquantata di milioni di euro, per finanziare attività promozionali che utilizzeranno il simbolo del burattino-bambino più famoso del mondo. E nello scenario politico di questi giorni bui, in cui i nostri rappresentanti si dividono e si scannano su tutto, dai venti di guerra alla gestione della giustizia, almeno Pinocchio sembra essere il collante di una bella ammucchiata «bipartisan».

Tra i miracoli del burattino di Collodi dobbiamo annoverare anche questa sua taumaturgica capacità di mettere tutti d'accordo, come accade per la Nazionale, la pizza, il culto della mamma e il Festival di Sanremo. Di che cosa sarebbe simbolo Pinocchio? Un simbolo, un marchio, se vuole essere tale, deve essere univoco ed indicare in modo inequivocabile un significato preciso. E allora in che cosa consisterebbe quell'«italianità totale» che, secondo l'onorevole Migliori, è riassunta nel personaggio nasuto e giullaresco di Collodi? Il burattino è come una voragine onnicomprensiva in cui sono risucchiate tutte quelle che vengono ritenute le caratteristiche fondanti del popolo italiano.

In Pinocchio, si dice, convivono l'indole cialtrona, monellesca e furbescamente arruffona dell'italiota medio. C'è l'esaltazione della scappatoia, del sotterfugio bugiardo, del compromesso, del pressappochismo, dell'inconcludenza, tutti ingredienti mescolati, però, col senso del dovere e del timore della punizione. Pinocchio, prima di essere un furbesco burattino, è un figlio che tradisce tutti coloro che lo amano ed incarna in sé quel senso di colpa tipicamente mammone dell'italiano medio. In «Contro Mastro Ciliegia» il cardinal Biffi l'ha addirittura elevato ad emblema di una corretta antropologia cattolica, in cui la creaturalità peccatrice si redime alla fine nel rapporto con un padre e una fata, riletti come simboli divini. Mah!

Questo è il marasma di significati che si ritrovano in Pinocchio. Come simbolo univoco e chiaro non c'è male. Il problema vero, però, è che Pinocchio non può essere simbolo di qualcosa che non esiste. Non esiste l'italianità, così come forse non esiste neppure l'Italia. Sugli euro ci abbiamo messo Dante, l'uomo di Leonardo, la Venere di Botticelli e altri simboli di un'Italia che è definitivamente morta.

Culturalmente siamo diventati la periferia povera, colonizzata dalla barbarie americana. Così, in punta di piedi, mi metto dalla parte di Gaber, che amava così tanto questo paese, da non sentirlo più come suo. Così innamorato dell'Italia e di un'appartenenza che non trovava, da dichiararsi antiitaliano. E, come posso, ricanto le parole della sua ultima canzone: «Mi scusi Presidente, non è per colpa sua, ma questa nostra patria non so che cosa sia».

Società: «L'immagine di Pinocchio come autenticità dei prodotti italiani all'estero. Pinocchio e l'Italia che non c'è più» - di Mina, La Stampa, Sabato 1 Febbraio 2003

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