Società

Il problema doping nello sport sta nella mentalità e nella cultura della vittoria a tutti i costi:  

Bisogna saper perdere

Mina



Il grande imbroglio. La grande stupidità. Anche lo sport, che barcollando segue o anticipa fenomeni sociali, cala nell'esasperazione della filosofia della vittoria. Nessuno può perdere. Altrimenti è tagliato fuori. Così maratoneti, ciclisti, calciatori, ostacolisti, mezzofondisti, sciatori, attori, cantanti, brokers, studenti e tutto il resto, ogni giorno si avviano verso la loro performance con l'occhio diverso da come glielo ha fatto la mamma. Così come nella vita anche nello sport il modello del successo a tutti i costi deforma i cervelli. La matematica e la storia dovrebbero aver provato ed insegnato che i perdenti sono mille o milioni o miliardi di volte più numerosi dei vincitori. E, nonostante questo, tutti vogliono vincere.


Sembrerebbe una tensione ideologica o religiosa al miglioramento di se stessi. E invece no. Strafottenti e bari, alcuni, forse i più forse no, provano a gonfiare i muscoli, a rallentare il cuore, ad aumentare l'aggressività e altre amenità. Sembra che l'idiozia non risparmi né chi gestisce lo sport, né chi lo pratica, né chi lo fa praticare.


Sirchia, che è persona che molto mi piace, ha detto:
"Il problema doping sta nella mentalità e nella cultura della vittoria a tutti i costi. Il modo per vincere viene identificato nella pastiglia e in tutti i trucchi possibili, anziché in un onesto confronto. Purtroppo questa è una cattiva mentalità comune in Europa. In tutte le palestre, dovunque, si vedono usi e abusi, anche perché doparsi è visto come un comportamento, certo moralmente criticabile, ma tutto sommato furbo per poter vincere. C'è tutta una cultura da costruire".


Come al solito, è un problema di cultura.
Tutto l'equivoco sta nel non voler riconoscere la mutazione genetica che lo sport ha subìto dal secondo dopoguerra ad oggi. Lo sport è stato innanzitutto lo strumento di una guerra ideologica tra sistemi politici contrapposti e poi è diventato un gigantesco show-business. La sua spettacolarità dipende dalla capacità degli atleti di fornire prestazioni al limite del sovraumano. Per ottenerle occorre essere non solo talentuosi ma anche allenati, quindi stressati fino al massimo livello sopportabile. Il doping si colloca sul fronte dello spostamento di questo livello e del tentativo di limitare i rischi di fallimento in gara. Se, come in ogni azienda che si rispetti, quel che conta è il successo, è normale che nessuno si sogni di rinunciare al doping. Che è funzionale alle esigenze dello sport spettacolo, così come l'antidoping lo è all'immagine dello sport pulito. E il potere sportivo gestisce l'uno e l'altro. Alla faccia delle belle balle decoubertiniane.


E le verginelle che strepitano contro la sporcizia dello sport si liberino, per favore, dalla doppia morale di chi fa l'inorridito di fronte ai brutti foruncoli e poi si arricchisce con le operazioni di maquillage. Una volta immaginavamo l'atleta come la forma moderna dell´eroe superfigo, che vince contro ogni difficoltà. La mutazione genetica dello sport lo fa oggi assomigliare ad un uomo di spettacolo che alza le braccia dopo la vittoria, passa all'antisintattica intervista di rito e poi deve scappare di corsa. A fare la pipì.

Mina, La Stampa,  25 maggio 2002

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