Società

L'uguaglianza dimenticata

Mina



E anche questo 8 marzo è passato. Senza troppi sbandieramenti di mimose, senza cortei infiorati per le strade, senza girotondi intorno ad incolpevoli uomini al grido molto chic di «maschio represso, masturbati nel cesso». Ma i politici esultano ugualmente. Per una volta tanto, dimenticate le invettive e i toni da bar, si sono ritrovati quasi tutti d’accordo sotto l’egida del politically correct.


Per superare le dilanianti divisioni su rogatorie internazionali, conflitti d’interesse e articoli 18, occorreva proprio scoprire l’acqua calda e mettersi di buzzo buono a modificare la Costituzione. Non bastava attenersi all’ovvietà dell’art. 51 («Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza»). No, bisognava aggiungere che la Repubblica si impegna ad adottare i provvedimenti necessari per garantire alle donne una effettiva parità di accesso alle cariche elettive. Tutte le donne, commosse, ringraziano i deputati, in gran parte maschi, che concedono l’elemosina. Che ribadiscono che l’uguaglianza va sancita per legge, inserendola addirittura nella carta costituzionale. Che, poi, per concretizzare la norma, perpetueranno l’orrore delle quote protette. A meno di arrivare alla forzatura estrema, istituendo liste elettorali separate, che garantiscano l’elezione di almeno il 50% di donne.


Prepariamoci ad altre legittime richieste. I transessuali, che in questa divisione verticale dell’elettorato ritengono di non essere adeguatamente rappresentati, minacciano una nuova marcia su Roma. A loro sostegno si preannuncia anche l’adesione dei pensionati, dei diabetici, dei netturbini che, ovviamente, vorranno anch’essi la loro quota protetta. La parità sancita per decreto ha come unico effetto immediato che la coscienza dei parlamentari si è finalmente sgravata.


Ma la realtà delle cose, al solito, sta oltre le norme scritte. Molto, ma molto più delle modifiche costituzionali, improntate a un ovvio ugualitarismo e a un inutile buonismo, hanno influenza nefasta i meccanismi mediatici che riproducono gli stereotipi più insulsi. Sanremo docet. Sulla carta l’uguaglianza, ma nella proposta televisiva la solita storia, la solita straripante esplosione di ombelichi svolazzanti e di carnacce al vento, le solite vallette con la grinta di un soprammobile. E la colpa non è solo della tv.


A tutti sta bene che la donna sia teoricamente uguale all’uomo, ma poi preferiamo rinchiuderla nel ruolo predefinito dall’immaginario maschile. Accade così anche con i gay. Si lanciano anatemi su chi ancora li ritiene dei «diversi», ma poi siamo molto più tranquillizzati se li vediamo incipriati, con le ciglia finte e le moine checcose. E, conseguentemente, ci inquieta sapere che il nostro commercialista o il medico, dall’aspetto pacatamente tranquillo, ha qualche preferenza maschile.


Siamo messi male, se ancora si deve parlare di pari opportunità. Sarò cocciuta, ma mi chiedo se proprio mai accadrà che la scelta fra uno di destra e uno di sinistra, oppure tra un uomo e una donna, tra un nero e un bianco, tra un omosessuale e un eterosessuale, proprio mai verrà fatta tenendo conto delle specifiche capacità, della preparazione e dell’intelligenza operativa? No, eh? Mi devo rassegnare? Non ce la faccio?

Mina, La Stampa,  9 marzo 2002

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