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Le tribù in giacca blu

 

Il Senato cade preda di una crisi d’identità, di uno sdoppiamento di personalità e dal Senato arriva la conferma che siamo sempre il solito paese malato di faziosità, di veleni, di meschinerie tribali.

MINA

E intanto, fuori da quelle porte, si prepara la fine del mondo. E loro, imperterriti, strillazzano le solite amenità, con le sillabe ben scandite, il ferale epiteto «ta-le-ba-ni», mentre dall’altra parte si replica con l’originale e immancabile «fascisti». E in una meschina mutazione genetica, il Senato cade preda di una crisi d’identità, di uno sdoppiamento di personalità. Dalla curva Sud gli ultras in blazer di buona sartoria e cravatta regimental urlano «servi», mentre le brigate rosso-bianco-nero-azzurro-giallo-rosso-viola, in gessato e cravatta a piccoli pois di stile berlusconiano, rispondono con l’antico grido di «stalinisti». L’arbitro Pera fischia a destra e a manca, fin quando, non riuscendo più a contenere l’invasione di campo dei tifosi scalmanati, se ne esce con la mitica esclamazione: «Questo non è il Parlamento dei talebani!».

Triste e patetico, questo vano riferimento a quanto accade fuori da quelle porte. Dentro al cuore delle cosiddette «alte sedi istituzionali», la guerra che non inizia mai è già scoppiata, al suono di bordate di «vergogna!», «corrotti e corruttori», «incivili», «indegni», «cornuto». E tra una bomba e l’altra, risuona quel cognome scandito a ritmo martellante, che ormai suona come la peggiore ingiuria che si possa lanciare all’avversario: «Pre-vi-ti, Pre-vi-ti!». I senatori che non vogliono scendere nell’arena degli invasati espongono striscioni, come nelle migliori manifestazioni pacifiste.

In mancanza di bombe intelligenti o di missili-antimissili, gli onorevoli si accontentano di pezzettini di un qualsiasi ordine del giorno o dei fogli dei loro discorsi, scagliati contro l’arbitro a mo’ di siluri. I questori chiamati a sedare i tumulti si trovano a svolgere l’ingrato compito di scudi umani tra opposte bordate. E il bancone della presidenza, trasformato in un obiettivo sensibile alle ingiurie di mezzo emiciclo, reagisce con voce tonante.

Dai soffitti affrescati di Palazzo Madama le figure mitologiche guardano con aria schifata e silente la sceneggiata. Solo l’imperturbabile, divino Andreotti le imita, standosene immobile e ieratico, al suo posto come sempre. La guerra verbale arriva nei paraggi dei suoi occhiali e viene respinta da quello scudo da cui emana il sibilo assordante del suo intelligente distacco.

E non mi si venga a dire che la questione all’ordine del giorno era di particolare significato. Sarebbe capitato e capiterà anche per deliberare sulle quote latte, sul numero dei netturbini da assumere, sul conflitto d’interessi, sulle dimensioni dei preservativi.

A prescindere dal merito della discussione, dal Senato arriva la conferma che siamo sempre il solito paese malato di faziosità, di veleni, di meschinerie tribali. Lo sapevano già gli antichi Romani, quando esclamavano «Dum Romae consulitur, Saguntum oppugnatur». Ma almeno loro lo dicevano con senso di dignità, visto che si trattava di una civile discussione. Quella che è mancata in Senato. E intanto, fuori da quelle porte, si prepara la fine del mondo.

Mina
La Stam
pa, 8 ottobre 2001

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