Europa:

 

Intervista a Marta Sordi:

Usa, Roma, Europa. E lascia Atene

Quando Roma era l’America, i greci giocavano all’europea. Atene finì col perdere democrazia e libertà, grazie ai movimenti pacifisti interni. Corsi e ricorsi della storia? No, strepitose analogie. Intervista a Marta Sordi
 
 

di Luigi Amicone


La confusione generata nel popolo dai richiami della foresta la conosciamo. Un po’ meno il valore della memoria e, come parte significativa di essa, la considerazione del presente alla luce di analogie rintracciabili nella storia passata. Dopo tutto non si tratta di recuperare exempla o paradigma validi per “servirlo”, il presente. Questa è ideologia da libri di liceo italiani e, per l’appunto, attività degna dei poveri Camera-Fabietti. L’uomo è uno. Ieri, oggi, domani. Perciò ha ragione Tucidide, la storia umana indagata seriamente è un “acquisto per sempre”. Ciò spiega perché, volendo ragionare sul particolare frangente storico che stiamo attraversando - con una guerra appena alle spalle e un nuovo quadro internazionale tutto da ricomporre - e che vede come protagonista assoluto sulla scena internazionale la superpotenza americana, abbiamo interpellato uno dei massimi studiosi del mondo antico greco-romano. Epoca che sta alla radice della stessa nozione di “Occidente” e che sembra presenti non poche similitudini con il cosiddetto attuale “mondo unipolare”. Siamo a colloquio con Marta Sordi, già docente di Storia Romana e Storia greca, insignita di prestigiosi riconoscimenti internazionali e - oltre che di una gran mole di ricerche e studi sull’antichità - autrice di un recente volume (Alle radici dell’Occidente, Marietti 1820, 15 euro) che onestà intellettuale dovrebbe consigliare a ogni insegnante di leggere e, dato che è impossibile non esserne sedotti per la chiarezza di scrittura e, al tempo stesso, per il rigore della trattazione e il riferimento puntuale alle fonti, adottare come libro di lettura obbligatoria almeno nell’ultimo anno delle scuole superiori.


Professoressa, considerando quanto sta accadendo nel mondo dopo l’11 settembre e alla luce di quanto l’amministrazione americana sta tentando di realizzare dopo la liberazione manu militari dell’Irak, un’agenda che prevede guerra senza quartiere al terrorismo, esportazione della democrazia e il ridisegno geo-politico dell’area mediorientale, ecco, in questa straordinaria sfida in cui si è lanciata l’America, vede qualche analogia con episodi che segnarono mutamenti epocali nel mondo antico?

Un momento simile nell’antichità si può cogliere forse all’indomani della Seconda Guerra punica che, in un certo senso, è la prima guerra mondiale dell’antichità perché coinvolge tutte le grandi potenze del Mediterraneo - Cartagine, Roma, la Macedonia - e perché il suo teatro è rappresentato da quella che era allora l’ecumene: Italia, Spagna, Grecia, Africa. è allora, dopo la fine di quella guerra, il più grande pericolo corso da Roma per la sua sopravvivenza, che i Romani svilupparono esplicitamente il progetto di un impero ecumenico. Dopo una guerra che durò 17 anni e che vide l’Italia invasa e devastata. Fu talmente traumatizzante la figura di Annibale per Roma, che i Romani non smisero mai di inseguirlo in maniera davvero risoluta e implacabile. Tant’è che, ancora molti anni dopo averlo sconfitto, chiesero espressamente alla Siria - che gli aveva dato rifugio dopo il suo esilio a Cartagine - di estradarlo a Roma. E quando il generale africano scappò dalla Siria trovando asilo presso il re di Bitinia, anche qui Roma chiese la sua estradizione ed egli preferì suicidarsi piuttosto che essere consegnato.


Dalle guerre puniche del II e III secolo prima di Cristo, a quel disegno di Impero ecumenico che Roma poi realizzò compiutamente in epoca augustea, in cui il fatto nuovo destinato a rifondare il mondo è la nascita e il diffondersi del cristianesimo. Che giudizio avevano i cristiani sulla guerra?

I cristiani recepiscono tranquillamente, fin dai primi secoli, il concetto romano di bellum iustum. Per riprendere le parole di Agostino, proprio nel De Civitate Dei, la “guerra giusta” nasce dalla “necessitas tuendae libertatis et salutis”, è cioè la guerra condotta per “la necessità di salvare la libertà e la salvezza”. Quindi non soltanto la guerra di resistenza a un’invasione, ma anche quella condotta in risposta a una minaccia sicura e imminente che mette in pericolo la libertà. Agostino dice che la colpa delle guerre giuste è di quelli che le provocano e che, in sostanza, le rendono necessarie.


Cosa ne pensa di questa considerazione di don Gianni Baget Bozzo, scritta nel contesto del recente viaggio del Papa in Spagna: «il cardinale Roca, arcivescovo di Madrid, ha detto che il pacifismo papale obbligava in coscienza i cattolici, diversamente da quanto pensa il cardinale Ratzinger, che non lo giudica obbligo di coscienza»? Il riferimento è ovviamente alla guerra americana in Irak, non a quelle romane contro Annibale.

Della guerra parla chiaramente il catechismo, fissando le condizioni della guerra giusta e affermando che spetta ai capi di Stato e di governo assumere decisioni e responsabilità in proposito. Indubbiamente chi decide una guerra si assume tutte le responsabilità e può anche sbagliare: ma, restando fermo il principio, la valutazione delle circostanze e dei pericoli concreti che possono rendere necessaria una guerra per il bene comune, spetta ai governi legittimi, “a Cesare”. Qui, e io credo, come per la pace, la guerra, le alleanze, i tributi, siamo proprio di fronte al “Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Ed è ancora sant’Agostino che, nel commento a un salmo, ci ricorda che l’imperatore legittimo può essere buono o cattivo, però è a lui che spetta l’onere di decidere e a lui il cristiano deve lealmente obbedire. Dice sant’Agostino: Giuliano era quello che era, e quando egli imponeva ai soldati cristiani di venerare gli idoli, quelli dovevano obbedire a Dio prima che all’imperatore. Ma quando anche l’apostata e idolatra Giuliano ordinava di andare alla guerra, i soldati cristiani erano pronti, perché sapevano di dover obbedire, proprio in nome del Signore eterno, al signore temporale.


Sembra non occorrano forzature per intuire le analogie che corrono tra l’antica Roma e l’attuale Washington. E l’Europa, a chi potrebbe somigliare, secondo lei, tra i potenti dell’antichità?

Al momento delle vicende di cui ho parlato, che è il momento della grande espansione romana nel mondo ellenistico, i Romani vengono a contatto con i Greci della madrepatria (fino ad allora conoscevano bene soprattutto i Greci dell’Italia meridionale e della Sicilia) e si delinea un rapporto che ha qualche analogia con quello fra Stati Uniti ed Europa. I Romani, che alla fine della I guerra Macedonica, con la pace di Fenice del 205, si erano trovati coinvolti in una koinè eirene, una pace comune, fondata sul riconoscimento di certi fondamentali principi di diritto, la libertà e l’autonomia delle città greche (la koinè eirene, pace multilaterale e fondata su principi teorici può, in un certo senso, essere considerata l’Onu dell’Antichità), furono sollecitati dagli stessi greci a intervenire contro la Macedonia in nome della libertà e dell’autonomia delle città. Vincitore di Filippo V di Macedonia, Flaminino proclamò solennemente a Corinto la libertà e l’autonomia dei Greci, ma subito dopo i Romani si trovarono di nuovo di fronte alle caratteristiche beghe interne dei Greci, ai loro cavilli, agli intrighi con Antioco III di Siria e a nuove sollecitazioni di intervento in nome della libertà e dell’autonomia. Di fronte ai Romani, i Greci del II secolo a.C. fanno un po’ la figura degli Europei di oggi, ed appaiono immemori del monito che, poco più di vent’anni prima, mentre era ancora in corso la II guerra punica, aveva rivolto loro, secondo Polibio, l’etolo Agelao: «Bisogna saper prevedere la grandezza della guerra che sta sorgendo in Occidente… bisogna pertanto porre fine alle discordie e alle guerre fra Greci, se vogliamo avere il potere di fare la guerra e di fare la pace fra noi. Perché se le nubi che ora si addensano in Occidente giungeranno sulla Grecia, le tregue, le guerre e, insomma i giochetti che ora facciamo fra noi ci saranno tolti del tutto…». I “giochetti” non cessarono e i Romani che erano intervenuti in Grecia pieni di ammirazione per la sua civiltà e la sua antica cultura, cominciarono a disprezzare i Greci e a chiamarli Graeculi e a giudicarli capaci solo di chiacchiere.


Insomma, erano gente seria, una volta, i Romani, un po’ come gli odierni americani…

Per capire l’effetto che la potenza romana faceva nel II secolo a.C. vale la pena di leggere il ritratto che di loro offre il I libro dei Maccabei con il resoconto dell’ambasceria mandata a Roma nel 161 da Giuda Maccabeo per ottenere l’appoggio dei Romani alla resistenza giudaica contro i Seleucidi, che, dopo aver invaso la Palestina, tentavano di imporre agli Ebrei culti e costumi pagani. Nel capitolo ottavo del libro (accluso nella nella Bibbia, ndr) c’è l’esaltazione non solo della potenza, ma anche del carattere dei Romani: «Avevano ridotto in loro potere gli altri regni… ma con i loro amici e con quanti avevano in loro fiducia conservavano l’amicizia… nonostante i loro successi, nessuno di loro si era imposto il diadema e non vestivano la porpora per fregiarsene. Hanno costituito un consiglio (il senato ndr) e ogni giorno trecentoventi consiglieri discutono riguardo al popolo perché tutto vada bene». La propaganda romana che si eprimerà con Virgilio nel famoso «parcere subiectis, debellare superbos», appare pienamente recepita e sostanzialmente credibile ai piccoli popoli in lotta per la loro indipendenza. E i Maccabei sembrano aver visto giusto nel contrapporre la grande democrazia romana ai re ellenistici: questi ripiegati nelle loro beghe interne, quelli impegnati in un vasto disegno politico di un impero ecumenico, capace di integrare in una sintesi di diritto popoli diversi.


Tornando alle similitudini. Oggi l’Europa è il continente in cui è più in voga una certa moda autodemolitrice dell’Occidente. “Siamo noi la sentina di ogni nequizia”, protestano certi filoni di pensiero e movimenti cosiddetti antagonisti. “è la nostra politica e la nostra civiltà della globalizzazione l’origine di tutti i mali”, arrivano a scrivere finanche le più importanti riviste missionarie. E, naturalmente, il terzomondo sarebbe la povera, innocente, sacrificale vittima di tutte le nostre ingiustizie. Il cardinale Ratzinger l’ha definita ideologia “dell’odio di sé”. Si ritrovano movimenti analoghi nel mondo greco-romano?

Posizioni del tipo di quelle a cui si riferisce lei mi pare si possano rintracciare nella Grecia del IV secolo nei riguardi della Macedonia. Siamo all’epoca della resistenza antimacedone delle grandi poleis elleniche, soprattutto della democrazia ateniese, che era rimasta la più potente perché era uscita quasi indenne dalle guerre per l’egemonia. Era stata sconfitta, è vero, e costretta a riconoscere l’autonomia agli alleati nella guerra sociale. Ma Atene era ancora abbastanza forte, quando venne messa in crisi dal fronte interno dei “pacifisti” che guardavano con simpatia la Macedonia.
Sono intellettuali come Eschine, Demade, Focione, che favorirono l’indebolimento interno e il declino di Atene. La lotta di Demostene contro questa gente nel periodo del regno di Filippo II, è significativa. Ma era una lotta impari.


In che senso?

Perché da una parte le città greche, fossero democratiche o oligarchiche, discutevano comunque le loro cose in pubblico, avevano assemblee più o meno ristrette, ma le questioni le dibattevano sempre pubblicamente. Mentre Filippo era un monarca, e decideva le cose all’interno del gabinetto reale. La democrazia ateniese dovette da una parte lottare contro una monarchia in cui tutto era segreto, e che faceva delle promesse, dava assicurazioni e poteva poi negarle senza doverne discutere con nessuno; dall’altra doveva contrastare un fronte interno che parteggiava per il nemico e che sfruttava la democrazia, in cui tutto poteva essere discusso pubblicamente - noi oggi la chiameremmo “società aperta” - per sostenere la monarchia antidemocratica e antiateniese di Filippo.


Eschine, Demade, Focione, a quali idee si ispiravano questi “pacifisti” ante-litteram?

La filosofia del IV secolo a.C. discuteva sulla physis basileos, sulla natura del re ideale e aveva sfiducia nella democrazia. Così, mentre questi intellettuali diffondono, da una parte, l’idea che la democrazia è un modello politico che assomma tutti i difetti e fa perdere tempo; dall’altra, procedono alla mitizzazione del re ideale, saggio e giusto, si fa strada l’idea che la volontà del re è legge e diventa difficile distinguere il re, di cui si prepara la divinizzazione, dal tiranno. Il vero modello di Alessandro è, in fondo, Dionigi I, tiranno di Siracusa, fondatore di uno stato territoriale che si proclama la più grande dinastia di Europa.


Cristiani e Impero romano. Lei ha scritto un libro sull’argomento. In sintesi qual è l’attitudine del cristianesimo nei confronti dell’impero?

I cristiani parlano con stima dell’impero romano: le grandi apologie del II secolo a Marco Aurelio, quella di Melitone di Sardi e di Atenagora, inneggiano ad Augusto e al suo impero mondiale che ha assicurato la pace. Atenagora arriva addirittura ad augurare l’ingrandimento dell’impero e scrive che i cristiani pregano per questo. E siamo ancora in età di persecuzioni! Un’altra cosa: i cristiani interpretavano il famoso passo della II Lettera ai Tessalonicesi - quello che parla di «o katekon» e «to katekon», di “colui” e della “cosa” che impediscono l’avvento dell’Anticristo - senz’altro come l’impero romano. L’imperatore era “colui”, l’Impero era la “cosa” che avrebbero impedito l’avvento dell’Anticristo secondo i primi cristiani.


E non esisteva anche allora tra i cristiani qualcuno che rappresentasse l’impero romano un po’ come fanno certi nostri odierni predicatori, pensiamo a padre Zanotelli o a certi cattolici terzomondisti, che sono pacifisti assoluti e descrivono la potenza americana come la “Bestia dell’Apocalisse”, l’“Anticristo”…

Prescindendo dall’Apocalisse, che riguarda due imperatori, Nerone e Domiziano, considerati tiranni anche dalla tradizione romana,
la contestazione di Roma e del suo impero si trova, negli scrittori cristiani dei primi tre secoli, solo in autori scismatici ed eretici e mai nella “grande Chiesa”. Caratteristica è la posizione del Montanismo, un’eresia scoppiata in Frigia nel II secolo e poi diffusasi anche altrove, che vagheggiava ed emulava lo spirito delle rivolte giudaiche del tempo dei Flavi e di Adriano (a cui i Cristiani della Palestina non avevano voluto partecipare, rimanendo fedeli ai Romani), rifiutava il servizio militare, spingeva alla ricerca del martirio con provocazioni contro i templi e contro le statue degli dei, assumeva atteggiamenti che oggi diremmo “fondamentalisti”. Il montanismo provocò i sospetti di Marco Aurelio, che cercò di aggirare il divieto di Traiano di cercare i Cristiani (il cui arresto era autorizzato solo su denuncia privata) permettendo la ricerca di ufficio contro i sacrileghi, a cui per certe azioni i montanisti potevano essere assimilati. Confusi con i montanisti, anche i Cristiani furono perseguitati in Asia e in Gallia: è questo il periodo delle grandi apologie che ho già ricordate, destinate ad eliminare l’equivoco tra Cristiani e montanisti e a ribadire il lealismo dei Cristiani verso l’impero. Il martirio di Policarpo, vescovo di Smirne, raccontato da una lettera della chiesa di Smirne ad un’altra chiesa asiatica, apre la letteratura sui martiri e definisce il martirio “secondo il Vangelo”, non cercato, ma accolto con fermezza. Apollinare, vescovo di Gerapoli, in un frammento della sua apologia ricordava il miracolo della pioggia, ottenuto con le loro preghiere, dai cristiani della XII legione Fulminata, in un momento di gravi difficoltà per Marco Aurelio nella guerra contro i Marcomanni in Germania, e smentiva così il rifiuto da parte dei Cristiani del servizio militare. La scena della preghiera dei soldati è accolta nella colonna Antonina. La “grande Chiesa” rifiutò l’eresia montanista dissociandosi da essa in maniera totale e integrale. Al punto che in Asia i cattolici, cioè i membri della “grande Chiesa”, non volevano vedersi associati a questi fanatici neppure nel martirio.
 
 

Europa: «Intervista a Marta Sordi: Usa, Roma, Europa. E lascia Atene», di Luigi Amicone, Tempi,  Numero: 20 - 15 Maggio 2003

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