'U ventu sparti

NORME GIURIDICHE NEI DETTI E NEI PROVERBI CALABRESI

da

'U ventu sparti

di Umberto Di Stilo

 

           Nel  corso degli ultimi otto anni, grazie agli incontri di primavera voluti da Don Peppino Scopacasa, attraverso detti, proverbi e massime popolari, ci è stata offerta l’opportunità di esaminare, nelle sue varie sfaccettature, la vita e gli usi della nostra civiltà contadina e, per quanto ci riguarda, senza pretese scientifiche ma solo a scopo divulgativo e - per certi aspetti- conservativo, abbiamo cercato di ricostruire la filosofia di vita dei nostri antenati che attraverso i più svariati proverbi, inconsapevolmente, hanno innalzato duraturi monumenti al loro stesso buon senso.

           Il quadro, però, non sarebbe completo se, nel vasto panorama dei detti e dei proverbi calabresi, non cercassimo di individuare quelli che contengono le norme giuridiche che costituivano il fondamento della cultura della classe contadina.

Click qui per andare all'indice del libro

           I latini sostenevano che ogni società, ogni aggregazione umana, non può vivere senza un complesso di regole che disciplinino i rapporti tra le persone che compongono quella stessa aggregazione. Precisavano, inoltre, che  i singoli componenti della comunità si dovevano incaricare  a farle osservare. Da qui la massima  “ubi societas ibi ius”.

           La nostra società contadina non poteva ignorare tale principio e si è data delle norme di “diritto non scritto” per regolarizzare ed uniformare il comportamento di tutti i suoi componenti ma, soprattutto, per dare risposte precise alla necessità di assicurare a tutti loro una pacifica convivenza.

           Erano norme che, come sempre, scaturivano dalla quotidiana osservazione della natura e dall’esperienza accumulata mediante il diuturno lavoro dei campi.

           Anche per reperire questi  “frammenti di vita”  non è necessario andare a scartabellare nelle fornite e polverose biblioteche di città. Ciò perchè, riferendosi essi alle consuetudini dei nostri antenati, possono essere ancora rintracciati nelle pieghe della memoria popolare, nella stessa forma e nella medesima genuina sonorità gergale che li ha caratterizzati sin dalla loro creazione.

           Son documenti che in moltissimi ambienti calabresi, ancora oggi, vengono tramandati in forma orale giacchè, nonostante il continuo processo di italianizzazione del dialetto e la quasi totale scomparsa della vecchia e patriarcale civiltà contadina, nei paesi interni,  in particolare in quelli montani, esistono ancora persone anziane che amano ricorrere all’uso dei proverbi per rafforzare e colorire i loro discorsi perchè molti dei princìpi sanciti da quelle massime ancora osservano ciecamente nelle loro quotidiane azioni, essendo più che mai convinti  che

                                            ‘u dittu è Vangelu

                                                      (Galatro) [1]

e che, pertanto, bisogna operare secondo le indicazioni che gli antichi antenati ci hanno tramandato attraverso quelle loro massime.

           Molti anziani, ancora oggi, ricorrono abitualmente all’uso dei proverbi. Lo fanno con maggiore convinzione, però, quando intendono raccomandare ai giovani le norme a cui bisogna attenersi nella quotidianità della vita. In queste circostanze ripetono le più significative tra le tantissime lapidarie massime  che ricordano i regolamenti, che sanciscono i diritti ed i doveri dei cittadini e che, nel loro insieme, costituiscono un vero e proprio “codice comportamentale”  e rappresentano il testo, non scritto, di diritto popolare.

           In particolare, per i nostri antenati le uniche norme a cui dovevano ispirare le loro azioni ed i loro quotidiani rapporti di lavoro, erano tramandate oralmente; erano quelle che avevano sentito ripetere dai loro nonni e che, quasi sempre, erano racchiuse in motti che, ispirati al loro mondo contadino, erano quasi sempre in rima.

           Attraverso questo genere di proverbi si può desumere il senso giuridico dei contadini che, sotto quest’aspetto, sono stati i primi veri legislatori, avendo, nel loro piccolo, dato vita a quelle consuetudini che poi costituiranno la base del diritto.

           A ben scavare nella memoria, infatti, ci accorgeremo che la civiltà contadina, nella sua semplicità espressiva, ha saputo produrre tutta una serie di massime e di proverbi che rappresentavano un vero e proprio codice rurale e che, a riprova della loro validità, hanno costituito (e continuano a costituire) le fonti popolari del diritto.

           D’altra parte, molti dei principi ispiratori delle norme rurali dei nostri antenati affondano le radici nelle regole consuetudinarie latine e, quasi a dimostrazione della loro attuale validità, sono stati ripresi dai legislatori che li hanno consacrati, codificandoli nel Codice Civile.

Comunque, raccogliere e illustrare i proverbi e le massime che, pur nella loro semplicità, hanno dettato norme di vita, significa risalire il cammino dei tempi; significa ricostruire gli usi popolari che quelle massime hanno generato; significa studiare la storia sociale di un’epoca della quale ancora oggi è possibile trovare consistenti tracce nelle nostre comunità, giacché non poche sono le testimonianze di quelle antiche norme di vita ancora presenti nei nostri codici comportamentali.

E poichè la civiltà che ha generato le norme che ci proponiamo di esaminare in questa sede era quella contadina, ci sembra più che logico che i loro proverbi e le loro massime, nella simbolica ed originale sinteticità, racchiudessero un codice giuridico-rurale con risvolti di carattere morale e familiare. Sicchè, così come il proverbio in genere è la sintesi di un principio morale, il proverbio giuridico-rurale non solo è frutto della consuetudine (“jus non scriptum”), ma stabilisce una norma.

Infatti c’è ancora chi ripete con sacerdotale maestà che

consuetudini fa’  leggi

                     (Galatro)

oppure che

l’usu vecchiu è leggi,

          
             (Galatro)

massime che, in fondo, ci ricordano che le vecchie usanze costituiscono le fonti primarie di ogni produzione normativa e, pertanto, del diritto.

Siamo di fronte, quindi, alle “veteres mores”, alle antiche norme, cioè, che, per lo più, regolavano i rapporti tra il proprietario terriero ed i coloni, tra  il “massaro” ed i mandriani, tra il datore di lavoro e i  braccianti.

Gli accordi che stabilivano tali rapporti, quasi sempre, erano siglati da patti verbali e da un’amichevole stretta di mano.

Ciò perchè

‘a parola è strummentu
                         (Galatro)

                           o, come in altra versione,

‘a parola è cuntrattu.
                           (Galatro)

Alla “parola”, insomma, i nostri antenati attribuivano un valore sacro e, una volta preso l’impegno da esso non si poteva recedere per nessun motivo, proprio come se si trattasse di un contratto scritto.

La “sacralità” della parola veniva ribadita dalla massima

parola data e corpu minatu
non si ponnu tornari arretu
.

Anche per questo c’era  chi sosteneva che

parola di galantomu
è attu di notaru

                    (Galatro
)

 ma, per certi aspetti, il detto premia un po' troppo il  “galantuomo” [2]  che, non di rado, abusava della servile sottomissione e della incultura del contadino e, per tutelare gli interessi personali, tradendo le attese dei coloni, dei mezzadri e dei semplici “jornatari”, veniva meno agli  impegni formalmente assunti.

Comunque, nonostante la classe subalterna sia stata sfruttata e derisa abbastanza spesso dai ricchi proprietari, nei nostri antenati vivo e sentito era il senso della sacralità della parola e la cieca osservanza degli impegni.

Questo concetto è ben espresso nei due versi della massima

fide de Calabrise è, quandu è data
senza se, senza ma: a morte e  a vita

che Francesco Spezzano, a mo’ di biglietto da visita, ha posto all’inizio della sua raccolta di proverbi.[3]

Lo stesso Spezzano, sempre in tema di forte vincolo che l’uomo calabrese attribuiva alla parola, ricorda il proverbio secondo il quale 

l’uomu ppe’ la parola
lu vuoj ppe’ li corna

con la variante

l’omu si teni da’ parola
e ‘u vôi di’ corna
[4]

                    (Galatro e molti altri paesi della Piana)

volendo significare che così come la caratteristica distintiva del bue sono le corna, quella dell’uomo è il tener fede alla parola data ed all’impegno assunto.

E chi veniva meno agli impegni e finiva per tradire la fiducia che gli era stata precedentemente accordata?

Nei loro confronti i giudizi erano più che duri; erano sferzanti e pesavano sulle coscienze come  grossi macigni giacchè era considerata mancanza grave il venir meno all’impegno assunto ed alla “parola” data. Specie quando si trattava di impegni di natura economica, di scadenze non onorate dai pagamenti. In questo caso per gli insolventi non c’era commiserazione. C’era anzi chi li bollava ricordando che

l’omu chi non ha parola ferma
si merìta lu chiaccu e poi la canna.
[5]

                                     (Galatro)

In effetti la massima fa riferimento alla tradizione secondo la quale chi subiva la mortificante condanna della gogna, veniva posto alla pubblica derisione con una corda legata al collo ed una canna tra le mani.

E dovevano essere piuttosto numerosi gli uomini che, non sempre per motivi dipendenti dalla loro volontà ma, piuttosto, per le ricorrenti crisi economiche che si abbattevano su quel tipo di società, erano costretti a venir meno agli impegni precedentemente assunti. Pertanto costituiva una eccezione chi, nonostante tutto, riusciva a caratterizzarsi per precisione e puntualità.

L’uomo puntuale nei pagamenti guadagnava la fiducia di tutti. Specie quando, superando non  pochi  sacrifici, riusciva  a far  fronte agli impegni di natura economica ed onorava con puntualità le scadenze dei prestiti a cui era costretto a ricorrere.[6]

Solo chi era puntuale nel saldo del debito acquistava fiducia e, in caso di ulteriore bisogno, poteva ricorrere a nuovo prestito.

Lo sottolinea la massima secondo cui

                           l’omu puntuali
                                  è patruni da’ gurza ‘e l’atri.

                                                               (Catanzaro)

La sacralità dell’impegno assunto ed il rispetto dei patti stipulati emergono chiaramente dal detto con il quale gli antichi hanno sancito il principio secondo il quale

                          ‘u pattu è cchiù d’a leggi

                                                                (Galatro)

dal momento che ci sono regole di vita e norme comportamentali che superano le leggi scritte.

Solo coi parenti c’era il rischio che tutto andasse a mal partito e che gli impegni assunti non venissero rispettati. Con loro, a scanzo di sorprese, pertanto, bisognava ricorrere alla scrittura privata, al contratto stipulato davanti ai testimoni. In merito i nostri antenati non avevano dubbi. Perciò suggerivano:

                                  cu’  amici pattu
                                  cu’  parenti cuntrattu.

                                                             (Galatro)

In linea di principio, comunque, i patti venivano rispettati, giacchè una volta raggiunti, per i contraenti, assumevano il valore della  legge scritta.

Ce lo conferma la massima secondo la quale

                           ‘u pattu vinci ‘a leggi,

principio sulla cui validità i nostri antenati non avevano dubbi di sorta. I patti, infatti, erano sacri e come tali andavano rispettati, anche quando le conseguenze potevano avere risvolti negativi all’interno della famiglia.

                         ‘U pattu ti caccia d’â casa,

si affermava, infatti, per dimostrare che per onorare gli impegni, se il caso lo avesse richiesto, bisognava lasciare la casa.

E, non di rado, i genitori di ragazze in età da marito, avendo pattuito di dare in dote la casa alla figlia, pur di non venir meno alle promesse, andavano a vivere in una abitazione presa in fitto, pur di “dotare” la figlia e pur di tener fede ai “patti” sottoscritti nei “capitoli matrimoniali” o più semplicemente per tener fede agli impegni assunti a voce con i consuoceri al momento del fidanzamento “ufficiale” o nel bel mezzo della “cerimonia del singo” della figlia, futura sposa.

In una società che basava la sua economia sui prodotti della terra e che poneva in cima alla sua scala sociale il ricco contadino, -(che, forse, perchè era proprietario di terreni e di capi bovini; perchè aveva pecore e capre; perchè aveva alle sue dipendenze pastori e mandriani;  perchè disponeva del contante necessario per pagare gli operai che lavoravano le sue terre o andavano a mietere il suo grano;  perchè disponeva del carro agricolo e dell’aratro, comunemente, era chiamato “massaru”)-  è logico che tutte le attenzioni venissero rivolte al mondo agricolo-pastorale e che le “norme” di vita mirassero principalmente a regolare i rapporti tra le varie categorie di lavoratori che a quel mondo, direttamente o indirettamente, erano interessate.

Su tutto e su tutti sovrintendeva l’autorità del vecchio patriarca. A lui bisognava rivolgersi per avere “saggi consigli”; a lui era demandato il compito di ergersi ad arbitro per sanare le controversie familiari.[7]

Era lui, inoltre, che, facendo stringere la mano destra ai contraenti, suggellava gli accordi di compravendita ai quali era chiamato a sovrintendere con la saggezza dell’esperienza e con l’autorità dei suoi capelli bianchi.

Nella civiltà contadina, sia quella di  “paciere” che quella di “notaio” erano funzioni di alta responsabilità e di grande prestigio sociale;  esse venivano attribuite al proprietario terriero e contribuivano a qualificarlo socialmente all’interno della comunità.

Non va dimenticato, inoltre, che costituiva differenza sociale anche il fatto che il “massaru”, ovvero il contadino-proprietario, sapesse leggere e scrivere. Fosse, cioè, sotto questo aspetto, allo stesso livello dei superbi ed arroganti “gnuri” del paese. Anche per questo i suoi analfabeti operai e braccianti preferivano andare da lui ogni qualvolta avevano da affidargli incarichi “notarili”, dovendo essi procedere alla stesura di qualche “sillammatica”[8]. Più spesso, però, si trattava della stesura di “arbarani”, ossia ai “capitoli matrimoniali”[9] o, più semplicemente, di qualche pittace.[10]

Anche per questo, dunque, si diceva che

                           ‘u massaru
                                   è seggia e notaru.

                                                        (Galatro)

Con maggiore frequenza, però, si ricorreva all’autorità ed all’esperienza del “massaru” quando c’erano da sanare controversie nate da contestazioni e liti su diritti di servitù o diritti di proprietà.

Una delle più diffuse controversie che, da sempre, ha originato contrasti è quella che ha per protagonisti il proprietario del fondo dominante e quello del fondo servente e che pone a motivo del contendere il diritto di proprietà dei frutti caduti dai rami che si stendono sul fondo del vicino.

Anche in questi casi si ricorreva alla oculata interpretazione del vecchio patriarca che, con voce solenne e distaccata, sentenziava:

                           l’olivu di cu’ è

                           l’agghianda aundi è

                                                                  (Galatro)

o, come nella versione di Campo Calabro:

                          ‘a gghianda aundi cadi,

                          ‘a liva ‘i cu’ è.

Altri, invece, ancora oggi sostengono il contrario, e cioè:

                            l’olivu duvi è

                           l’agghianda di cu’ è

mentre, secondo altri ancora:

                           olivi e agghianda

                           aundi cadi s’addimanda.

Tre diverse regole giuridiche per stabilire un (assai evidente) controverso diritto di proprietà. Tre interpretazioni che si richiamano ad altrettanti usi locali, a vecchie leggi decemvirali o a disposizioni del pretore romano.

Fatto è che, a parte la distinzione fra le olive e le ghiande, le consuetudini locali evidenziano una diversità di trattamento fra il frutto dell’olivo e quello della quercia.

Secondo Raffaele Corso [11] la consuetudine risale alla legge decemvirale (Tavole del XII secolo) che disponeva al riguardo: “si glans in emen caduta sit domino legere ius esto”. Ma col termine “glandis” si volevano intendere tutti i tipi di frutta, a patto però, precisava il Pretore romano, che il proprietario dell’albero provvedesse a raccogliere “le ghiande” (e, quindi, nella interpretazione estensiva, qualunque tipo di frutta) nel volgere di tre giorni, trascorsi i quali avrebbe perduto ogni diritto di proprietà.

Questa, ancora oggi, è una delle norme più controverse e sottili fra le tante che regolano i rapporti di servitù e di vicinanza. Ciò anche perchè essa differisce da paese a paese.  In Calabria, comunque, la consuetudine più diffusa è quella che garantisce il diritto a raccogliere le olive al proprietario dell’albero che le ha prodotte, mentre delle ghiande ha facoltà di impadronirsene il proprietario del terreno sul quale cadono.

Analogo trattamento è riservato alle noci. Ricorda la massima, infatti, che ad

                           agghianda e nuci

                           aundi cadinu, fanci ‘a cruci.

                                                                         (Galatro)

D’altra parte un’altra massima precisava in maniera inequivocabile che

                            l’arburu aundi pendi, rendi

                                                                        (Galatro)

principio, questo, poi preso “in toto” dal Codice Civile che ha sancito, a favore del proprietario del terreno sul quale si protendono i rami degli alberi del confinante, il diritto di appropriarsi dei “frutti pendenti”. E non soltanto di quelli che cadono, ma anche di tutti quelli che riesce a cogliere con  le mani senza, pertanto, arrampicarsi sulla pianta.

Liti e controversie tra proprietari confinanti  voleva evitare la massima secondo la quale

 

                           ‘u ventu sparti.

                                                                        (Galatro)

In sostanza al vento, e cioè ad una forza della natura sicuramente al di sopra delle parti, era demandato il compito di distribuire i frutti dell’albero lasciato vegetare in prossimità del confine col vicino.

Ebbene, poichè la divisione è affidata all’imparzialità del vento e la norma stabilisce che il frutto appartiene al proprietario del suolo sul quale è caduto, è evitata qualsiasi polemica e lite.

Ciononostante le discussioni nate per controversie sui confini erano (e sono) causa di continue, lunghe ed, a volte, anche dispendiose liti tra i proprietari.

Per questo gli antichi sostenevano che

                             allu limitu

                            nc’è lu Tintu

volendo con ciò significare che le discussioni per i contrasti sui confini erano alimentate dal Diavolo (Tintu).

In molte zone della Calabria si usa ancora segnare il confine con delle pietre così grandi da rendere difficoltoso  il loro spostamento col preciso intento di rubacchiare suolo al  vicino.

Francesco Antonio Angarano,[12]ricorda in proposito che quando segnavano i riferimenti di confine con le pietre, i contadini calabresi pretendevano che assistessero dei giovani perchè, in caso di necessità, potessero essere chiamati a testimoniare.

Le vertenze su vere o presunte usurpazioni di confini erano all’ordine del giorno. Ciò perchè, nonostante il “limite” fosse segnato da un sentiero, molto spesso -nonostante le consuetudini lo vietassero rigorosamente-  con la scusa di ripulirlo delle erbacce, esso veniva “rampato” e, per conseguenza, piano piano, centimetro dopo centimetro, veniva sottratta della superficie al legittimo proprietario. Questo era (ed è, tuttora, purtroppo!) un tipo di furto assai diffuso, nonostante contro questo genere di “illecita appropriazione” di terreno  ci fosse una tremenda maledizione:

                           a cu’ sposta sentera

                           nci capa culera.

                                                               (Catanzaro)

Stando ad alcune antiche interpretazioni, in origine il confine tra due proprietà era sacro. Ogni spostamento, manomissione o alterazione costituiva, dunque, un peccato così imperdonabile che chi se ne rendeva responsabile era oggetto di maledizioni e, per conseguenza, possibile vittima di gravi malattie (nci capa culera).

C’erano, poi,  alcune consuetudini locali che al viandante (ed in particolare al cacciatore “permessanti”, al cacciatore, cioè, che era in possesso del regolare permesso di caccia) consentivano di raccogliere i frutti pendenti dai rami che si sporgevano sulla strada. In alcune zone la consuetudine precisava che si potevano cogliere, purchè fossero subito consumati, tre fichi, tre pere, tre noci, ecc. Insomma non più di tre frutti. Inoltre era tollerato che il viandante, purchè non calpestasse il terreno seminato, potesse pascere il cavallo e, in caso di reale necessità, per esso potesse raccogliere le foglie di qualche albero.

Il tutto era giustificato sia dal  proverbio

                            da’ rrobba ‘i campagna

                            cu’ ndi pigghia, mangia

                                                                         (Galatro)

che dalla massima

                           ‘a rrobba è di Ddeu

                           ‘ndi mangi tu e ‘ndi mangiu jeu.

                                                                        (Galatro)

Una disposizione ancora in uso, e che si tramanda da secoli, fa obbligo al proprietario del terreno di pagare le migliorie fondiarie.

Sentenzia la massima:

                            l’arburu è di cu’ u curtiva

                           d’u’ patruni è ‘a migghiuranza.

                                                                            (Galatro)

La vecchia disposizione mira ad evitare che il colono possa essere penalizzato da un proprietario egoista ed irriconoscente verso chi ha speso tutte le sue energie nei lavori di coltivazione e di piantagione di un terreno non suo.

Non sempre, insomma, i “diritti” erano riconosciuti al proprietario del terreno. 

La massima, pertanto, è in contrapposizione con quella che testualmente afferma:

                            ‘i diritti su’ d’ ‘i patruni

                            ... e ‘i doviri d’ ‘i garzuni

                                                                            (Galatro)

o, come nella variante:

                              ‘ i diritti su’ d’ ‘i patruni

                              ... e ‘i doviri d’ ‘i cugghiuni!

che, in sostanza, la dice abbastanza lunga sul servilismo di chi, per motivi di sopravvivenza, era costretto a subire le angherie ed i soprusi dei padroni!

Tra le varie consuetudini che regolavano i rapporti tra proprietario della terra e colono, non va dimenticata la norma secondo la quale

                            lu zappatu è di la terra

                            lu siminatu di lu patruni

che potrebbe sembrare sibillina ma che, in verità, così non è.

In effetti la massima ricorda che in caso di rescissione del contratto da parte del colono quando l’annata agraria era già avviata, il lavoro fatto (“lu zappatu”) sarebbe andato a beneficio della terra e, quindi, non poteva essere indennizzato; per conseguenza, tutto ciò che era stato seminato sarebbe diventato di totale proprietà  del  padrone. Una norma abbastanza precisa che, in alcune zone, è ancora possibile trovare in uso.

Viva è anche la consuetudine secondo la quale 

                            ‘a vigna vecchia torna o’ patruni

che, in sostanza, stabilisce che il colono, in caso di licenziamento, può chiedere che gli venga riconosciuto un indennizzo solo sui nuovi impianti di vigna e non sui miglioramenti o sulle sostituzioni effettuate nel vecchio vigneto, quello per il quale, cioè, è stato stipulato l’accordo di coltivazione.

Forse anche per questo c’era chi, tenendo fede ad una assai discutibile norma, evitava di apportare miglioramenti alle piantagioni perchè

                           ‘u fundu comu l’avisti

                            l’hai a dassari.

Il che era già tanto, rispetto a chi, invece, riteneva che non era conveniente apportare miglioramenti alle proprietà prese in fitto temporaneo. Pertanto veniva categoricamente sconsigliato di piantare nuovi alberi nei terreni dei quali non si era proprietari.

Quindi, a dar retta al suggerimento:

                            a’ terra d’atri

                            chianta sulu spini!

                                                                               (Galatro)

Ma non è questa la sola “stranezza” che ci è stata tramandata.

Tra le consuetudini del mondo agricolo, infatti, non è difficile trovarne altre che, molto probabilmente, sono state originate in situazioni particolari e contingenti.

Solo a chi “legge” in modo superficiale la norma potrebbe apparire  singolare il dettato, secondo cui

                           Cezi e muntuni

                           menzi o’ massaru

                           e menzi o’ patruni.

                                                                        (Galatro)

In effetti non è singolare,  anche se il principio pone sullo stesso livello “prodotti” assai diversi. Sotto quest’aspetto potrebbe sembrare strano che le foglie del gelso fossero equiparate ai  prodotti delle mandrie (latte, formaggio, lana ed agnelli) e che sia le une che gli altri venissero divisi in parti uguali tra il proprietario ed il contadino o tra il proprietario ed il pastore.

La cosa non è singolare né strana, però, se si considera che nella civiltà contadina le foglie del gelso, essendo esse l’unico alimento del baco da seta, costituivano una vera e propria ricchezza, tant’è che la coltura di quest’albero, per secoli, fu diffusa quasi quanto quella dell’olivo (e sicuramente più di quella degli agrumi).

D’altra parte in Calabria, in quei tempi, l’industria serica era così sviluppata da costituire una delle più importanti fonti di reddito della Regione.[13]

E’ allora comprensibile perchè le foglie del gelso si dividessero a metà, come la carne ed i latticini.

Com’era ovvio, avevano una buona quotazione anche i bachi. Secondo il proverbio, infatti

                           ranu a metà

                           e siricu a terzu.

                                                                        (Galatro)

La ripartizione dei prodotti delle campagne (ma anche delle spese di coltivazione) era regolata da norme precise. Sicchè il grano si divideva in parti uguali tra il proprietario del terreno ed il colono-coltivatore mentre, ad esempio, la percentuale di spartizione dell’olio variava nella stessa misura in cui il proprietario compartecipava alle spese di coltivazione.

Quando, comunque, un terreno veniva dato in colonìa, si stabilivano le condizioni della cessione temporanea che solitamente variavano a seconda della ubicazione della campagna (vicina-lontana; in collina o in pianura) nonchè della  natura e del conseguente sfruttamento del terreno (seminativo od alberato; irriguo o seccagno).

In generale, comunque, si sosteneva che

                            a metà vannu i terri bboni

intendendo con ciò che dei prodotti delle terre fertili, il coltivatore doveva corrisponderne metà al proprietario.

Comunque, nei contratti agrari le “condizioni” spesso differivano da un paese all’altro, da un periodo all’altro della stagione e, perchè no?, anche da un padrone all’altro.

I nostri antenati, infatti, sentenziavano che

                             novu patruni, nova leggi

volendo con ciò significare che, in caso di vendita di un terreno, il nuovo proprietario, disconoscendo i fittuari ed i coloni che stavano coltivando quella campagna, in qualsiasi periodo dell’annata agricola, poteva annullare (o modificare) i contratti in corso.

Per i contratti di locazione c’era la consuetudine di osservare alcune scadenze fisse. Esse, come si desume dagli atti notarili conservati nei vari archivi, coincidevano quasi sempre con la primavera e con l’autunno. Si sentiva dire, infatti, fino ad alcuni anni addietro che:

                            marzu spussessa

                           e settembri ti caccia

                                                                            (Galatro)

   (dal momento che nel mese di marzo si doveva annunciare la rescissione del contratto che, però, aveva decorrenza effettiva dal mese di settembre, quando la stagione agraria era già conclusa con la raccolta e la sgranatura del granturco. Va anche detto, comunque, che in molti paesi ogni disdetta di contratto doveva essere “preannunciata” il 25 marzo. Nè un giorno prima nè uno dopo, quasi per commemorare la ricorrenza festiva dell’Annunciazione di Maria.

      Il contratto dei pastori aveva validità annuale e doveva essere disdetto (diversamente si intendeva  tacitamente rinnovato) entro la fine di maggio, periodo entro il quale, solitamente, avveniva la tosatura delle pecore (quando tra mandriano e proprietario si divideva la lana, allora grande fonte di reddito). Quel giorno nell’aia della “masseria” era gran festa. Per l’occasione veniva macellata una o più pecore e si banchettava allegramente. Alla fine del pranzo, il pastore che aveva deciso di licenziarsi, tenendo in mano il bicchiere colmo di vino, rivolto al padrone ripeteva:

                                    patruni, mo’  mi vidisti

                                    e  mo’ no’ mi vidi cchiuni. 

Da parte sua il padrone che, spesso andava alla ricerca di una plausibile scusa per cambiare i pastori, esternava subito la sua soddisfazione, rispondendo al brindisi con un ringraziamento e con un augurio.

Non di rado, però, era il  padrone che decideva di cambiare i suoi pastori. In tal caso, dopo l’abbondante  pranzo a base di carne e patate, era lui che, rivolto ai pastori, esternava la decisione di non rinnovare più il contratto ripetendo la “formuletta”:

                                    Ddiu sia lodatu,

                                    siti tutti licenziati.

Secondo alcuni antichi Statuti, comunque, qualora il garzone di masseria fosse stato costretto a rescindere il contratto di lavoro nel corso dell’annata agricola, (e, dunque, prima della sua scadenza naturale) avrebbe perduto tutti i diritti derivanti dal lavoro già prestato. Compreso quello della “giusta” retribuzione.

Stando alla norma, infatti:

                             p’u bon’annu

                             u garzuni chiumpi l’annu

                             ma si scappa ‘nta  l’annata

                             perdi ‘a misata. [14]

Anche il fittuario ed il colono avevano il diritto di sciogliere gli accordi per cercare di trovare, presso altri proprietari, più convenienti sistemazioni. Anche per loro il codice consuetudinario privilegiava un ben determinato periodo dell’anno.

Secondo il vecchio consiglio, infatti:

                          quandu canta lu firringò

                          ogni patruni cangiari si po’;

                          quandu canta lu firringhì

                          bonu o malu, statti aundi si.

Com’è abbastanza evidente, il suggerimento antico si riferisce a due distinti periodi dell’anno. Il primo (quandu canta lu firringò) è da intendere come il tempo compreso tra il mese di marzo e quello di giugno, quando  la cinciallegra ama far sentire il suo canto melodioso.

Il secondo periodo (quandu canta lu firringhì) è da identificare genericamente  con l’autunno, stagione  in cui l’usignolo  -forse  perchè preso dalla nostalgia della stagione estiva già passata- si abbandona in canti assai melodiosi.[15]

Il proverbio  è la riprova di come la divisione del tempo, la successione delle stagioni e la periodicità delle coltivazioni, nella società contadina dei nostri progenitori, fosse  scandita dal grande orologio della natura[16] attraverso ricorrenze festive o, come nel caso in esame, attraverso il canto di due uccelli: la cinciallegra e l’usignolo.

Comunque se i coloni si licenziavano senza un plausibile motivo perdevano diversi diritti acquisiti nel tempo e col lavoro.

Tra l’altro dovevano rinunciare alla loro quota parte di paglia, di bucce secche di legumi e della pula ottenuta dalla vagliatura del grano  che, tutte insieme, costituivano la provvista di mangime da somministrare agli animali della masseria in caso di piogge persistenti o, comunque, di maltempo durante l’inverno.

In questi casi si sosteneva, infatti, che

                           pagghia e luvìa

                           resta  a’ massaria. [17]

                                                                          (Galatro)

Tornando alle ricorrenze festive, è il caso di ricordare che tra i contadini ed i pastori di Galatro, fino ai primi anni sessanta, i contratti di locazione delle abitazioni  dovevano essere disdetti in concomitanza con la festività della Madonna della Montagna  (8 settembre). Trascorsa tale data si intendevano tacitamente rinnovati alle stesse condizioni dell’anno precedente.

Altrove il termine era spostato al 24 settembre, giorno di San Michele.

Nel giorno di San Martino, invece, c’era la consuetudine di pagare i fitti dei terreni e di rinnovare i contratti di locazione.

Proprio nel giorno di San Martino, infatti, aveva inizio il nuovo anno colonico e ogni contadino doveva cominciare a reperire le sementi per la nuova stagione agricola ed a rinnovare in tempo le necessarie attrezzature per affrontare in maniera tranquilla i vari lavori rurali.

 * * *

 

 

 

N O T E

*

La relazione <<'U ventu sparti - NORME GIURIDICHE NEI DETTI E NEI PROVERBI CALABRESI>>, tenutasi il 25 aprile 1994 a Mongiana, durante il IX Convegno su "LA NOSTRA LINGUA", è tratto dal Libro di Umberto Di Stilo "'U ventu sparti", Edizioni ACRE - Associazione Culturale Ritorno Emigrati - Mongiana (Vibo Valentia) 1995

[1]

Pur riconoscendo che i proverbi giuridici sono comuni a quasi tutti i paesi della Calabria, assegniamo a Galatro buona parte di quelli riportati in questa ricerca  non certo  per mero spirito campanilistico,  ma perché li abbiamo realmenteregistrati” nel nostro paese dalla viva voce di alcuni anziani pastori e contadini.

[2]

Più che alla persona di “elevata condizione sociale” riteniamo che il termine galantomu, nel proverbio in esame, voglia riferirsi alla persona che opera nella società in maniera irreprensibile a prescindere dalle sue possibilità economiche e dalle sue estensioni di terreno

[3]

Vedi: F. Spezzano: Proverbi calabresi, Milano, 1970

[4]

Il nostro proverbio deriva dalla massima latina 
         
verba ligant homines
          taurorum cornus funes

che letteralmente significa: “le parole legano gli uomini, le funi le corna dei buoi”.

[5]

Vedi: U. Di Stilo: Le stagioni della vita,  Mongiana, 1994, pag. 46 e seguenti.

[6]

Molto diffusi erano i prestiti  chiesti ai  “sacri monti di pietà” funzionanti presso le chiese più importanti del paese e, successivamente, alle varie  “Casse di prestanza” a quei tempi operanti in Calabria.

[7]

L’istituto dell’arbitrato ha origini antichissime, come risulta dalla tradizione orale e  come è confermato da svariati documenti archivistici.  Successivamente, riconosciuta la sua validità  giuridica, è stato codificato  dal  C. C. e dal C.P.C.  Oggi si ricorre all’arbitrato anche per dirimere controversie pubbliche.

[8]

sillammática : veniva così chiamata la scrittura privata con la quale si concludeva la vendita di un terreno o di una casa. Il termine dialettale deriva dal greco antico sunaallagma, nel suo significato di “contratto".

[9]

  Per questi due assai diffusi  “istituti notarili”  rimando il paziente lettore alle  note 30 e 33.

[10]

Pittace:  breve scritto notarile in cui venivano elencati gli oggetti che facevano parte del corredo. Dal greco pittacion  e dal latino pictacium.

[11]

Vedi: Il folklore agricolo, in Almanacco calabrese, 1955

[12]

Vedi: Vita tradizionale dei contadini e pastori calabresi, Firenze, 1973.

[13]

Secondo il D’Amato (Vedi: Memorie historiche della città di Catanzaro, Napoli, 1670, pag. 18) nella città di Catanzaro su 12mila abitanti c’erano attivi mille telai.
Molte filande, a livello industriale, hanno lavorato a Catona di Reggio, fino alla vigilia del secondo conflitto mondiale. Nella seconda metà del 1500 e, comunque, dopo l’espulsione degli ebrei che avevano monopolizzato il commercio del filato prodotto nella zona di Reggio, i genovesi hanno preso in mano la commercializzazione della seta e dei bachi. I centri calabresi di più intenso commercio di grezzo erano Catanzaro, Cosenza, Monteleone, Reggio, Seminara e moltissime altre località della “Piana” ove la produzione era possibile grazie alla vasta coltivazione di gelsi che costituiva il presupposto indispensabile per quell’attività. (Vedi: D. Musto: Mercanti e artigiani calabresi iscritti nelle matricole della seta, in: Atti del 3° congresso storico calabrese, Napoli, 1964) Nei volumi delle “Matricole” (Vedi: A.S.N.: Matricole dell’arte della seta) i primi nomi  dei calabresi che si incontrano sono quelli dei tessitori catanzaresi Pietro Greco e Ippolita de li Cortelli che si iscrissero nel 1532; l’ultimo è quello del maestro tessitore Vincenzo d’Inzillo di Nicastro che si iscrisse al registro di questi particolari
artigiani nel 1798, quando il commercio della seta, anche per via delle numerose tasse, cominciò a diminuire sempre più.

[14]

Vedi: R. Corso: Il Folklore giuridico, Almanacco calabrese 1955, pag.  41.

[15]

I contadini toscani suggerivano:
                                   
quando canta il fringuello,
                                   buono o cattivo, tienti a quello.

(Vedi: G. Giusti:Raccolta di Proverbi toscani nuovamente ampliati e pubblicati da G. Capponi. Firenze, 1971).

[16]

Sul “più antico calendario calabrese” vedi l’ interessante, e scientificamente completo, studio pubblicato da Domenico Raso su “Calabria sconosciuta”, anno XVII, n. 62 (aprile-giugno 1994), pag.13/20.

[17]

Questa massima è, spesso, usata anche in senso metaforico per significare che dopo tanto lavoro e tanti sacrifici si è stati  costretti a rinunciare a tutto.