Il piccolo mondo di Galatro

 

Servitù

da

'U ventu sparti

di Umberto Di Stilo

 

Ai nostri antenati, in determinati  periodi dell’anno, era consentito esercitare alcune servitù passive che si tramandavano da padre in figlio e che erano così diffuse da essere diventate delle vere e proprie consuetudini. In particolare ci riferiamo al diritto del legnatico, dell’erbatico e del raccogliere frutta nell’altrui proprietà.

E mentre il “legnatico” e l’”erbatico”, quando venivano esercitati su terra appartenente al feudatario od al Comune, rientravano negli “usi civici”, non altrettanto si può dire per l’appropriazione di frutta o di frumento nella proprietà privata. In questo caso i nostri progenitori si trinceravano dietro una regola di equità in base alla quale anche i meno fortunati ed i più poveri avevano il diritto di assaporare i frutti maturi e di trovare un po’ d’erba per la capretta che garantiva il latte fresco ai più piccoli ed ai più anziani della famiglia.

 

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In forza di questo tacito principio d’equità, in molte zone della Calabria ai passanti era anche consentito entrare nelle altrui proprietà e cogliere  uva, noci, fichi, pesche ed altri frutti. In alcuni comuni il permesso (come già evidenziato nelle pagine precedenti)  era limitato a tre grappoli d’uva, a tre fichi, tre noci, ecc. quanto era sufficiente, cioè, a togliere la classica “acquolina” dalla bocca, a dare nuove energie al viandante e ad attenuargli lo stimolo della fame.

A Joppolo ed in moltissimi altri comuni calabresi era consentiito che un passante, entrando nella proprietà altrui, potesse cogliere fino ad una “pettata” di frutti. Poteva, cioè, riempirsi tutto il davanti della camicia. Ma solo quella parte, però, giacchè se  avesse messo i frutti anche nella parte posteriore (“ntro govitu”)  avrebbe dato la netta dimostrazione di voler operare un vero e proprio furto e, quindi, di non essere stato spinto ad entrare nell’altrui frutteto dalla giustificata e comprensibile “causa comedendi”, cioè della impellente necessità di mangiare per fame. Chi metteva la frutta “ntro govitu”, non era giustificato; anzi, poteva essere denunciato per furto.

Tra  le  servitù passive più diffuse ricordiamo  quella  della  spigolatura,[1] della “racimolatura”,[2] dell’”erbatico”[3] e della raccolta della frutta.[4] 

Di queste servitù faceva parte anche quello strano diritto, le cui origini si fanno risalire al periodo feudale, e che consisteva nel così detto

                          fari ‘u sbarru.

Lo ”sbarru”, infatti, secondo alcune testimonianze, era il diritto esercitato dai cittadini allorchè, spinti dalla necessità di approvvigionare il necessario per il sostentamento della famiglia, invadevano i vecchi terreni demaniali usurpati dai ricchi signori del paese o della zona.

Secondo lo studioso Raffaele Corso, all’avvenuta raccolta delle olive seguiva lo “sbarru[5] cioè “il diritto di entrare nell’oliveto” per raccogliere le olive sfuggite a chi aveva provveduto a raccoglierle per conto del proprietario o, più spesso, che erano cadute dagli alberi dopo che il proprietario aveva deciso di concludere la sua annata olearia. Poche drupe che, però, costituivano un gran tesoro per chi viveva in condizioni economiche assai precarie e, come si diceva allora, non aveva neppure l’olio sufficiente a friggere un uovo o ad accendere una lampada votiva. 

“In pianura -precisa il Corso- i frutti caduti, che è permesso raccogliere, sono chiamati olive dei poveri, fino a quando i boschetti di olivi vengono sarchiati, ciò che avviene in novembre”.[6]

Tra gli  “usi civici” gravanti su suoli pubblici, abbiamo detto che uno dei più comuni era quello del “legnatico” cioè il diritto riconosciuto ad ogni cittadino di andare nel bosco e procurarsi la legna necessaria per il riscaldamento e per la cottura dei cibi. In alcuni periodi dell’anno, ed in modo particolare dopo ogni bufera di vento, i cittadini potevano accedere anche nella proprietà privata per raccogliere qualche fascio di legna, purchè secca ed a condizione che il vento, l’avesse rotta dall’albero portante. Si trattava, quasi sempre, di frascaglia, di quei rametti secchi, cioè, che le massaie usavano per accendere il fuoco  e che  comunemente venivano definiti  “appiccicaturi”.

Il diritto di accesso nell’altrui proprietà per raccogliere le frascaglie ed altri pezzi di legno secco era “sancito” dalla massima secondo cui

                           lignu siccatu

                           non è peccatu.

                                                                      (Galatro) 

Se poi insieme ai rametti secchi, qualcuno ne avesse raccolti anche di quelli ancora verdi, ciò non avrebbe  costituito certo reato o motivo di litigio. Solitamente c’era grande comprensione umana nei confronti di chi aveva trasgredito le norme, perchè spinto dalla necessità.

D’altra  parte anche i nostri vecchi “legislatori popolari”, avevano detto che

                            virdi e siccatu

                            non è peccatu

                                                                          (Galatro)

e che, pertanto, non era necessario andare a confessare la piccola trasgressione.

Quel “virdi”, però, non era da intendere solo come  “qualità” del legno. Infatti è il caso di ricordare che le persone che andavano ad approvvigionarsi di legna erano di condizione sociale estremamente umile. Gente che stentava a mettere insieme il necessario per garantire un modestissimo piatto caldo alla spesso numerosa famiglia. Insieme alla legna secca, pertanto, queste persone raccoglievano le erbe selvatiche che spontaneamente crescevano nei campi per poi cuocerle e mangiarle semplicemente scaldate e “senza nè sale, nè olio e nè pane” come spesso succedeva nelle aree di grande povertà della nostra Calabria  ove “in tempi di carestia e di recessione di offerta di lavoro” i contadini poveri  erano costretti a sottostare “a una condizione alimentare molto precaria, ricorrendo alle erbe selvatiche (...) e, comunque, contentandosi del solo pane senza companatico, nel qual caso solevano dire amaramente che mangiavano pane e coltello”.[7]

Dunque quel  “virdi” è riferito soprattutto alla verdura selvatica che veniva raccolta insieme alla legna secca e per la quale non era il caso di sentire rimorsi. D’altra parte che non fosse “peccato” trasgredire la norma lo sottolinea anche l’altra massima popolare che suggeriva:

                            virdi e siccuni

                           ‘on jiri ‘o cunfessuri.

                                                              (Catanzaro)

Un’altra servitù passiva era costituita dal diritto di passaggio che garantiva ai proprietari l’accesso alla loro abitazione o ad un loro qualsiasi terreno. Quasi a giustificazione di tale diritto, i nostri antenati sostenevano che

                           ‘un c’è casa senza porta

o, in maniera più completa, che

                            no’  nc’è  casa senza porta,

                            no’  nc’è  fundu senza strata.

                                                                        (Galatro)

Avevano assicurato il diritto di accesso nell’altrui podere anche i proprietari di  animali mansueti sfuggiti  alla custodia  dei massari a patto che venissero pagati tutti gli  eventuali danni.[8]

Non così per gli sciami d’api. Stando all’antico proverbio, infatti,

                            assami[9]  e nidi su’ d’u primu

o, secondo un’altra versione:

                            assami e nidi

                            duvi ‘i truovi, pigliatili

che ha anche una variante assai maliziosa, ove si consideri che allo sciame ed al nido, c’è chi ha voluto aggiungere anche il sesso.

Secondo questa versione, infatti,  c’era chi, mettendo tutto su uno stesso piano, così incitava:

                            assami, nidu e pilu

                            aundi u vidi pigghiatilu.

Comunque, mentre non c’è nulla da eccepire per i nidi, -sui quali era molto difficile che ci fosse chi  presumesse di accampare diritti di proprietà- per gli sciami il detto antico è in contraddizione con quanto sarà poi stabilito dal Codice Civile che, all’art. 924, testualmente recita:"Il proprietario di sciami d’api ha diritto d’inseguirli sul fondo altrui, ma deve una indennità per il danno cagionato al fondo; se non li ha inseguiti entro due giorni o ha cessato durante due giorni d’inseguirli, può prenderli e ritenerli il proprietario del fondo". Anticamente, evidentemente non era così. Il diritto consuetudinario dei nostri nonni, infatti, stabiliva che chi era sollecito a “raccogliere” lo sciame e ad indirizzarlo nell’arnia, ne diveniva automaticamente proprietario. Anzi, secondo alcune consuetudini locali, era sufficiente avvistare lo sciame per acquisire il diritto di proprietà. 

Come per i nidi, neppure per le anguille e per i funghi c’era chi potesse vantare diritti di proprietà. D’altra parte le anguille vivono libere nell’acqua dei fiumi (la cui proprietà è demaniale) ed i funghi crescono spontanei nei boschi. Poichè, dunque, nessuno poteva (nè potrà mai) vantare  il diritto di proprietà nè sulle anguille nè sui funghi,  diventava automaticamente proprietario chi, dimostrandosi abile nella individuazione e nella raccolta dei funghi e nella difficile cattura delle anguille, riusciva a far suoi sia i profumati frutti di bosco che le viscide popolatrici dei nostri limpidi corsi d’acqua. 

Nell’uno e nell’altro caso, comunque,  era (ed è) necessaria una buona dose di pazienza.

L’antica massima

                           ‘ngilli e fungi

                            duvi i vidi junci

è un esplicito invito ad appropriarsi sia delle prime che dei secondi.

 

* * *

 

Tra i tanti diritti che nella civiltà contadina venivano quotidianamente osservati e messi in pratica,  c’è quello del turno da rispettare al mulino ove tutte le famiglie, dovendo procedere alla panificazione, settimanalmente mandavano il grano ed il granturco perchè venisse macinato. Ebbene, il mugnaio non poteva e non doveva usare privilegi per nessuno. Nè per il ricco massaro che aveva portato a macinare diversi sacchi (tomoli)  di frumento, nè per l’anziana donnetta che voleva ridurre in farina soltanto pochi chili di grano per impastare le caratteristiche “nacàtule” e soddisfare così il desiderio espresso dal marito ammalato. Al mulino nessuno poteva accampare diritti di priorità o  privilegi di casta. Nella macinazione si seguiva l’ordine di arrivo all’interno del mulino.

Il proverbio stabiliva, infatti, che:

                           cu arriva primu

                           ô mulinu, macina.

                                                                          (Galatro)

 

***

 

Un “diritto” non scritto, ma tacitamente accettato dalla controparte che sapeva e tollerava, fingendo di non sapere nulla, era quello che, “motu proprio”,  mettevano in pratica attuazione i pastori. Questi, infatti, ritenevano fosse  un loro  preciso privilegio impadronirsi di una minima parte dei latticini che producevano (non solo ricotta, ma anche provola e formaggio) senza chiedere la preventiva autorizzazione ai proprietari delle greggi.  Secondo l’antica massima, infatti:

                            ogni massaru è patruni ‘i ‘na ricotta. 

                                                                            (Galatro)

 La massima, comunque, è ancora molto citata per indicare genericamente una prerogativa che, nell’ambito del proprio lavoro, ogni uomo ritiene di potersi attribuire senza tener conto di eventuali regole e delle effettive spettanze.

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N O T E

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<<Servitù>> è parte della relazione <<'U ventu sparti - NORME GIURIDICHE NEI DETTI E NEI PROVERBI CALABRESI>>, tenutasi il 25 aprile 1994 a Mongiana, durante il IX Convegno su "LA NOSTRA LINGUA", ed è tratto dal Libro di Umberto Di Stilo "'U ventu sparti", Edizioni ACRE - Associazione Culturale Ritorno Emigrati - Mongiana (Vibo Valentia) 1995

[1]

La spigolatura era consentita solo dopo che il proprietario, l’affittuario od il colono del terreno non solo avevano ultimato le operazioni di mietitura ma avevano già provveduto ad alzare nell’aia le caratteristiche biche (la “timogna”).

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[2]

Ultimata la vendemmia era consentito girare nel vigneto per cogliere i grappoli dimenticati sulle viti dalle raccoglitrici che, non di rado, lasciavano frutta sparsa qua e là proprio per favorire la raccolta di chi nei giorni successivi sarebbe passato tra i filari della vigna con la speranza di poter trovare pochi racimoli da portare a casa e da dare ai figli.

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[3]

Da novembre ad aprile i  pastori potevano accedere nelle proprietà private e liberamente procedere al taglio dell’erba che, spuntata e cresciuta spontaneamente, si riteneva potesse servire da pascolo per il bestiame. In pratica questo “uso” prese il nome del vecchio tributo feudale che i coloni, i pastori e, in generale, tutti gli utenti dei pascoli pubblici erano obbligati a pagare all’erario locale.

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[4]

Dopo la festa di Ognissanti era consentito raccogliere fichi, castagne e noci, frutti, questi, che dal 1° novembre in poi  erano considerati liberi da qualsiasi vincolo di proprietà. (vedi: U. Di Stilo : Il Tempo,  Mongiana, 1992; pag. 109).

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[5]

A questo termine di oscura origine, il glottologo Rohlfs, nel suo Nuovo Dizionario Dialettale della Calabria (Ravenna,  1977, ad vocem), attribuisce il significato di “folata, stormo di uccelli”. Se questo è l’esatto  significato del termine, vuol dire significa che  i nostri antenati, allorché hanno coniato il detto, hanno voluto paragonare le raccoglitrici di olive  -quelle che andavano “a coccijari”,  come si diceva-  proprio agli uccelli, perché come essi dovevano essere sollecite e perché come essi andavano in gruppi, sia che lo “sbarru” lo esercitassero ad inizio di stagione, sia che lo esercitassero alla fine, quando, cioè, le giare dei padroni erano già piene di olio.

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[6]

Vedi: Raffaele Corso: Regole tradizionali della gestione della terra in Calabria, in “Un’Italia sconosciuta”, Milano, 1977, pag. 333.

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[7]

 Vedi: G. Cingari: Storia della Calabria dall’Unità ad oggi. Bari, 1982; pag. 91.

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[8]

Il principio è stato poi sancito dall’art. 925 del C.C. in cui è anche previsto che se il legittimo proprietario non ne reclama la restituzione entro 20 giorni “da quando ha avuto conoscenza del luogo ove si trova”, automaticamente e legittimamente se ne può impossessare il proprietario del fondo.

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[9]

Nei paesi della provincia reggina l’alveare è chiamato “cupugghiuni”, mentre lo sciame è comunemente chiamato  "lapunaru".

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