'U ventu sparti

Proprietà

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di  Umberto Di Stilo

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Nella società rurale con il termine roba -che era usato soprattutto come sinonimo di terreni- si intendeva la proprietà dalla quale dipendeva la ricchezza ed il benessere di ogni famiglia.

Il termine, però, spesso era usato in maniera vaga e serviva per riferire di una semplice proprietà. Proprietà di un qualunque oggetto. Sicché il proverbio 

                    

                             rrobba trovata

                             non è arrobbata

  

ribadisce il principio che dava corpo a quella precisa norma giuridica in base alla quale non costituiva reato appropriarsi di un qualsiasi oggetto rinvenuto per caso.

Per sua natura, ogni uomo è visceralmente legato alla sua roba. E non è vero che questo sentimento di “proprietà” sia indice di avarizia. Può essere indizio di un legame sentimentale che esula dal possesso ed affonda le radici in una tradizione di famiglia che è difficile da sradicare e da cancellare dal cuore e dalla mente. Nessuna meraviglia, poi, nel vedere legato alla sua roba chi,  ha “sudato” le tradizionali sette camicie per acquistare quel  minuscolo bene immobile nel quale ha riposto tutte le speranze di riscatto sociale per l’intera sua famiglia e di progresso per i suoi figli. 

La rrobba è rrobba, diceva con orgoglio un vecchio pastore, raccontando con gli occhi lucidi i sacrifici che avevano caratterizzato la sua esistenza, quasi interamente  dedicata alla famiglia ed alla conduzione del suo “giardino”.  D’altra parte la  “proprietà”  (o rrobba), intesa come estensione di terreno,  nella civiltà rurale,  era considerata  sacra, rappresentando  essa il più importante elemento di lavoro e di vita per tutti.

Non ha mai riscosso grande stima e rispetto la proprietà comunale. Certo avrà influito sicuramente anche un fatto atavico. Era come una ritorsione psicologica, come la vendetta di chi interiormente sente di aver subìto un danno. Mancava, ai nostri progenitori, il concetto della pubblica proprietà perché sapevano che queste, quasi tutte, erano frutto di usurpazioni e di acquisizioni illegittime operate dai vari feudatari a danno dei singoli privati cittadini. 

Ed allora ritenevano che fosse quasi un giusto  “castigo di Dio” quando la proprietà comunale finisse in malo molo. E ricordavano che

                           ‘a rrobba du’ cumuni

                            s’a porta ‘u  vajuni

                                                                            (Galatro)

giacchè nessuno provvedeva a salvaguardarla ed a proteggerla dalle inondazioni del ruscello. Lo stesso proverbio, nella variante

 

                           robba comuni

                           s’a porta u vadduni,    

                                                                        (Catanzaro)

veniva usato per sottolineare che i beni di una qualsiasi società, tranne rarissime eccezioni, erano destinati a rimanere abbandonati; anzi, ad essere devastati dalle acque delle nostre fiumare, giacché nessuno dei proprietari si  sarebbe mai preoccupato di proteggerli, di avviarli a coltivazione e  di amministrarli.

Neppure la pentola, se appartiene ad una società disorganizzata, bolle mai, giacchè nessuno dei comproprietari solitamente è così solerte da preoccuparsi ad andare a controllare e, se necessario,  a ravvivare il fuoco:

        

                           ‘a pignata d’a cumunìa

                            non  gugghj  mai.

                                                                         (Sinopoli)

E non era certo una esagerazione, visto che il principio è presente anche nel proverbio secondo il quale

 

                           ‘u sceccu ‘i  tanti patruni

                            mori ‘i fami

                                                                       (Melicuccà)

o, come nella variante:

 

                          ‘u sceccu i tanti patruni

                           s’u màngianu i cani! 

                                                                         (Sinopoli)

giacchè c’era la convinzione che nessuno dei proprietari (sperando che fossero gli altri a farlo) provvedesse a somministrargli quella quotidiana dose di biada che solitamente garantisce all’asino la sopravvivenza o, secondo quanto asserito dalla variante, avrebbe provveduto a tutelarlo  ed a proteggerlo simbolicamente dagli assalti  dei cani.

Un’altra variante  ci riporta all’idea  di “proprietà comunale”. Secondo il proverbio, infatti:

 

                           ‘u cavaju d’u cumuni

                            mori ‘i fami.

 

L’animale era condannato a “morire” per le identiche motivazioni di prima: perché nessuno si occupava e si preoccupava della sua sopravvivenza.

Se dalla proprietà comunale si passava a quella  “nazionale” o, come comunemente si dice ancora, “del governo” (quasi che il governo fosse una persona fisica capace di esercitare diritti di proprietà)  allora i nostri antenati esternavano principi sicuramente più drastici.

Secondo una massima ancora oggi molto citata, infatti, unanime era la convinzione che

 

                           rrobba ‘i guvernu:

                           cu no’ ndi futti

                           vaci o’ ‘mpernu.

                                                                           (Galatro)

 

***

 

 

In molti  paesi costieri calabresi da secoli esiste una flottiglia di pescherecci che periodicamente prendono il largo per andare a pesca. Anticamente le barche svolgevano anche attività di piccolo cabotaggio giacché gli scambi commerciali  si svolgevano via mare.  Il possessore di una barca, pertanto, era considerato ricco perchè riusciva ad assicurare alla famiglia un modesto reddito. 

Non sempre, però, era lo stesso proprietario a salpare con la barca. C’era il caso, infatti, che l’imbarcazione fosse affidata ad uno o più pescatori che dividevano i proventi dei viaggi con il loro datore di lavoro. Durante il viaggio, però, i marinai si sentivano padroni assoluti della barca e di essa disponevano a loro piacimento, forti della massima secondo la quale

                    

                         ‘a varca è de chi a cavarca.[1] 

 

 ***

*

<<Proprietà>> è parte della relazione <<'U ventu sparti - NORME GIURIDICHE NEI DETTI E NEI PROVERBI CALABRESI>>, tenutasi il 25 aprile 1994 a Mongiana, durante il IX Convegno su "LA NOSTRA LINGUA", ed è tratto dal Libro di Umberto Di Stilo "'U ventu sparti", Edizioni ACRE - Associazione Culturale Ritorno Emigrati - Mongiana (Vibo Valentia) 1995

[1]

Il proverbio si presta ad  essere interpretato anche in chiave erotica. Lo Zimatore ricorda in proposito (vedi : Op. Cit. , pag. 87, nota 40) che  “se come dice il Padula, nei paesi del litorale cosentino veniva chiamata “varca” la donna sana e robusta e “filuchella”, piccola feluca, la ragazza agile e snella e se, come annota il Rohlfs, “cavarcare” sta ad indicare anche l’accoppiamento del gallo, allora il proverbio direbbe che la donna appartiene al maschio che la possiede sessualmente”. Dobbiamo aggiungere che l’annotazione del Padula (vedi:  Stato delle persone in Calabria , in Il Bruzio, n. 62. 1864)  relativa all’uso del termine “varca” usato per indicare una donna prestante, è ancora valida  giacchè  -come abbiamo avuto modo di constatare personalmente- esso è ancora usato dai marinai del versante tirrenico vibonese-reggino.

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