'U ventu sparti

La "Gabella" e la "Tacca"

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di  Umberto Di Stilo

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Alcuni anni addietro, in una casa colonica di contrada “Salice”  nella quale ci eravamo rifugiati per riparare all’acqua di un improvviso temporale, siamo stati involontari testimoni dell’attuazione di una  di quelle secolari consuetudini che affondano le radici nella civiltà magnogreca. All’amministratore di un noto proprietario terriero, un anziano fittuario consegnava diversi  
tomoli”  [1] di olive a  saldo del  canone” annuale dovuto  per  la  gabella”.[2]


Su una parete, con un carbone, erano state tracciate tante brevi linee verticali quanti erano i “
tomoli” di olive pattuiti per il canone annuale. Quel giorno, man mano che si procedeva con la consegna, il fittuario, servendosi questa volta di un coccio di mattone, con un deciso segno orizzontale “tagliava” le linee nere. Per ogni tomolo consegnato l’anziano fittuario tracciava un segnetto rosso su una linea verticale nera.


Era chiaro. In quella casetta colonica veniva attuato uno dei più antichi metodi empirici che la civiltà contadina abbia  escogitato nel corso dei secoli per calcolare  “debiti” e profitti. La cosa ci meravigliò, visto che la tecnologia già da tempo  offriva ben  altri  sistemi  per  “tenere a mente” - come disse il contadino- quanto ara stato già dato e quanto rimaneva da dare.


In effetti il sistema era assai semplice ed evitava ogni possibilità di contestazione dal momento che il legale rappresentante del proprietario esercitava il suo diretto controllo sia quando le linee venivano tracciate in verticale (al momento in cui iniziava l’annata olearia e veniva raggiunto l’accordo di fitto) che quando, al momento della consegna dei vari tomoli di olive, veniva effettuato il riscontro mediante il segnetto orizzontale eseguito con un pezzetto di  mattone. La lineetta rossa, insomma, stava ad indicare l’avvenuta consegna e, come tale, cancellava l’impegno.


Questa  forma di contratto di fitto temporaneo denominato “
gabella” era (ed ancora è) assai diffusa in Calabria, specie nei paesi della fascia preaspromontana ove gli oliveti, fitti e secolari, coprono la quasi totalità del territorio  coltivato.


In molti centri della zona, pertanto, è ancora possibile sentir dire che


                            cabbeja vo’ diri gabba

                                                               (Melicuccà)


dimostrando, con ciò, poca sfiducia sull’esito finale di questa forma di contratto a licitazione privata. L’aggiudicazione è semplice: solitamente un perito valuta  i frutti e sulla base della sua quantificazione e del corrispettivo valore, si perviene all’accordo tra  proprietario e  
gabellotu”. Sicché le olive si cedono in “gabella” o in cambio di una cifra pattuita o di una determinata quantità di olio (o di olive).


Spesso, però, con la scusa che il maltempo ha causato ingenti danni agli oliveti, dimezzando la prevista produzione d’olio, o perché altre cause hanno determinato la caduta anticipata delle drupe, l’astuto fittuario riesce a “gabbare” il proprietario. Anche alla luce della più recente esperienza, pertanto, risulta quanto mai fondata la massima antica secondo la quale il proprietario rischia grosso concedendo le sue olive a “
gabella”.


Tornando al sistema di calcolo  mediante le linee tracciate sulla parete adottato dal fittuario galatrese, (ma praticato anche in altre zone) ci sembra evidente che esso sia una derivazione ed esemplificazione della tradizionale  
tacca.
[3]


Era, questa, una listella di legno divisa in due parti, tra loro collimanti, mediante un taglio longitudinale su cui, quando l’analfabetismo era una piaga sociale assai diffusa in Calabria e nella società contadina in particolare, i pastori, servendosi di un affilato coltello, incidevano tante “tacche” quante erano le forme di formaggio, le ricotte o i capretti che consegnavano al padrone. Metà tacca la teneva il pastore, l’altra metà, per  i riscontri periodici, veniva consegnata al proprietario del gregge.


Ogni qualvolta il pastore effettuava una nuova consegna, dopo aver fatto combaciare le due mezze listelle, sotto gli occhi vigili del “padrone”, eseguiva tante incisioni - tante “
tacche”, appunto- quanti erano gli oggetti consegnati. In ogni momento dell’anno, avvicinando le listelle e contando le “tacche” si poteva controllare (fare, cioè, il “riscontro” ) della effettiva quantità di prodotti consegnati  nel corso dell’annata agricola.


Metà listella, quella che prendeva il nome di “
tacca” era custodita dal pastore, l’altra metà , chiamata “riscontro”, la teneva il padrone. Così facendo nessuno dei due poteva alterare i conti, giacché il numero di incisioni di una metà doveva corrispondere esattamente al numero dell’altra. Anzi, combaciando le due metà le incisioni (o tacche, donde il nome di questo “registro dei contiante litteram) i segni dovevano mostrare continuità, dovevano, cioè, combaciare perfettamente.


L’uso della “
tacca” è completamente scomparso non solo perché la moderna civiltà delle macchine ha mezzi e metodi molto più sbrigativi per annotare i prodotti consegnati, ma soprattutto perché la pastorizia (nelle zone in cui ancora è esercitata)  ha perduto il suo originario ed arcaico aspetto. 


Fino ad alcuni decenni addietro, ad un anziano pastore  che tutte le mattine scendeva in paese per consegnare ai clienti galatresi le ricotte che, ancora calde, portava nei suoi  tradizionali secchi di legno, -(le classiche
cisch)- abbiamo visto tirar fuori dalla tasca la sua “tacca” per  “annotare”  le ricotte che accreditava da un nostro vicino di casa che,  come d’accordo,  saldava il conto ogni fine mese. Il pastore dei nostri ricordi è stato, certamente, uno degli ultimi testimoni di quel mondo arcaico contadino  che ha fatto uso di quell’originale  “ blok-notes” ligneo.


Anticamente, però,  era così diffuso l’impiego della “
tacca” che, nei processi civili, essa era considerata una valida prova documentale “non scritta”.


Proprio per questo Enzo Zimatore
[4] ritiene possibile che l’espressione


                             mi armaru na tacca,


ancora in uso nella zona di Catanzaro per indicare di essere stato vittima di un raggiro impostato su false prove testimoniali, originariamente venisse usata da chi intendeva far sapere (e denunciare) di essere stato vittima di un imbroglio ordito mediante la contraffazione della “tacca di contrassegno”.


Altrove, quando si vuol far sapere di essere stati raggirati e fatti cadere nell’inganno, c’è ancora chi dice


                                mi armaru ‘na catrica
[5]

                                                                       (Galatro)


volendo cioè far capire  che, alterando i dati e le prove testimoniali, c’è chi è riuscito  a farlo cadere in trappola.


Comunque, di proverbi che esplicitamente richiamino alla memoria  l’ antico uso della  
tacca” ne ricorda uno il Benincasa:
[6]


                            facim’ i cunti e spezzamu ssé taglie;
                            amicìzzia ccu tije ‘u nci ‘nni  vùagliu

                                                                  (Bocchigliero)


(chiudiamo i conti e spezziamo le “tacche”; amicizia con te non ne voglio più). La decisione è di quelle drastiche. Di quelle, cioè, che una volta prese non si discutono; una decisione da cui è estremamente difficile tornare indietro,  ricredersi. 


Ai protagonisti-ispiratori del proverbio appena ricordato, evidentemente le “tacche” non coincidevano; qualcosa nelle due asticelle non collimava.


Da qui la discussione, la lite e la conseguente, quanto definitiva, rottura del rapporto di collaborazione e di lavoro.


Pertanto, forse anche per evitare il ripetersi di questi spiacevoli episodi c’era chi, a ben ragione e saggiamente, suggeriva:


                            cunti ô spissu,
                            amicizzia
longa!

                                               
(Galatro)


                                           
***



Note:  <<La "Gabella" e la "Tacca">> è parte della relazione <<'U ventu sparti - NORME GIURIDICHE NEI DETTI E NEI PROVERBI CALABRESI>>, tenutasi il 25 aprile 1994 a Mongiana, durante il IX Convegno su "LA NOSTRA LINGUA", ed è tratto dal Libro di Umberto Di Stilo "'U ventu sparti", Edizioni ACRE - Associazione Culturale Ritorno Emigrati - Mongiana (Vibo Valentia) 1995

[1]

E’ una antica misura per aridi la cui capacità si aggirava attorno agli 80 litri.  La “tumanata “, invece, è una misura agraria  (ancora in uso) equivalente a  circa 3350 metri quadrati.

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[2]

Il termine è ancora in uso nei paesi dell’Aspromonte ( Melicuccà, Sinopoli, San Procopio) nel significato  di canone forfetario per la cessione temporanea delle olive. In quella zona, infatti, ancora oggi si “danno le olive a gabella”. Comunemente il termine si fa derivare dall’arabo qabãla ,  nel suo significato di cauzione o tributo. Gabella  per moltissimi anni  fu  chiamata l’imposta a cui le amministrazioni locali sottoponevano i beni di consumo  e, per questo, fu odiata più del dazio.  Secondo alcuni studiosi il vocabolo deriva da una moneta d’argento coniata dalla zecca di Bologna, durante il pontificato di Giulio III  (1549-1555), il cui valore era di 26 quattrini.

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[3]

Vedi:  D’Amelio: Tacche o taglie di contrassegno, Nuovissimo Digesto, XVIII, pag. 1021; Lessona, Teoria delle prove,  3, 479.

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[4]

Vedi: Opera citata, pag. 90.

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[5]

catrica :  trappola per pigliare  vivi gli uccelli

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[6]

Vedi: E. Benincasa: I mille proverbi, Cosenza, s.d., pag. 76.

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