Antidoti


 

In una società secolarizzata e tendenzialmente materialista, dove anche i segni esterni delle realtà sacre e soprannaturali tendono a scomparire, è particolarmente sentita la necessità che il presbitero (…) sia riconoscibile

Abito
 

 

Rino Cammilleri


Nel 1994 la Congregazione per il Clero emanò un «Direttorio» nel quale si poteva leggere: «In una società secolarizzata e tendenzialmente materialista, dove anche i segni esterni delle realtà sacre e soprannaturali tendono a scomparire, è particolarmente sentita la necessità che il presbitero (…) sia riconoscibile».

Se vi interessa il testo completo, lo trovate nel libro di Michele De Santi L’abito ecclesiastico, sua valenza e storia (Edizioni Carismatici Francescani), con una premessa del card. Castrillon Hoyos e una postfazione di Franco Cardini. Certo, l’argomento è scabroso, perché oggi i preti tendono a vestire in borghese per «essere come gli altri». Curioso, però, nella società dell’immagine e dell’apparire. Penso all’efficacia rassicurante delle divise dei poliziotti, la cui sola presenza in una strada tranquillizza gli onesti e scoraggia i malintenzionati. Anche la pubblicità del dentifricio è più efficace se chi lo consiglia ha un camice bianco.

Chi ha paura dell’aereo sa bene quanto conti lo spettacolo sereno della hostess (a patto che la si possa individuare). In tribunale, poi, anche l’avvocato che discute una causa di pochi soldi indossa la toga. Insomma, in un mondo in cui anche le commesse dell’Upim vestono un’uniforme, l’unico che ha in uggia la sua sembra essere l’uomo di religione. Quanto sia importante, invece, lo si vede nella severità con cui i regimi atei la vietano.

Ai tempi in cui si rischiava la ghigliottina era giusto travestirsi; oggi si rischia solo qualche fastidio da parte, che so, di giovinastri ideologizzati o di mendicanti importuni o di psicolabili petulanti. E, se uno non sopporta i fastidi, fare il prete non è obbligatorio. Qualcuno dice che senza è più comodo. Sarà, comunque esistono in commercio le «taglie forti». L’abito non fa il monaco?

Questo era vero nel Medioevo, quando nelle università (corpi ecclesiastici) si portava anche la tonsura. Infatti, gli eretici Fratelli del Libero Spirito erano detti anche turlupins perché vestivano talvolta sfarzosamente ed altre di stracci, talvolta indossavano la veste di una certa corporazione oppure si presentavano con altri segni: nella loro dottrina antinomica si credevano superiori al peccato, dunque potevano permettersi tutto. Padre Pio, sentito di certi giovani frati che, entusiasti del «rinnovamento» conciliare, facevano le bizze per il saio, diceva: «Cacciateli. Ecchè, sono forse loro a fare un piacere a San Francesco?».

Più sottilmente, Pio XII, parlando a un congresso di operatori della moda, così esordì: «Da come uno si veste si capisce che cosa sogna». Paradosso: sembra ormai che solo i sospesi a divinis tengano all’abito.

 

 

Antidoti: «In una società secolarizzata e tendenzialmente materialista, dove anche i segni esterni delle realtà sacre e soprannaturali tendono a scomparire, è particolarmente sentita la necessità che il presbitero (…) sia riconoscibile. Abito», Rino Cammilleri, 22.05.2005

http://www.cammilleri.it/

 

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